3 consigli per esercitare meglio la tua product ownership

Conoscete Robbin Schuurman? E’ un Agile Coach e Scrum Master Trainer di origini olandesi che ha alle spalle un’esperienza di Product Owner e prima ancora di Project Manager.
E’ anche un prolifico autore di articoli e post sul suo blog, su Medium e Scrum.org.
In questi giorni ascoltavo una puntata di Product Owner Podcast di cui è stato ospite per parlare delle responsabilità del PO e di come dire no.

Abbiamo già parlato in passato di questa responsabilità del PO.
Schuurman ribadisce che dire no è una delle cose più difficili che il product owner deve fare e allo stesso tempo uno dei modi più efficaci per creare valore.
Proprio così! Creare valore attraverso la negazione. Perché di 10 idee o richieste che arrivano sul nostro tavolo statisticamente una sola è veramente rilevante per le nostre personas primarie mentre le altre 9 – che magari sono comunque buone idee – non lo sono.
Quindi dire no alla maggior parte delle richieste ha la finalità di preservare il massimo valore del prodotto che state gestendo.

Speriamo di poter leggere presto qualche chicca nel prossimo libro di Schuurman in uscita “50 Shades of No”; nel frattempo lui ha suggerito 2 modi immediatamente spendibili per dire no e condiviso alcuni consigli per esercitare al meglio la product ownership che trovo pratiche e centrate. Ve le riassumo.

Dire no in modo gentile e perentorio

Sostiene il coach: “Dire no è difficile per moltissimi Product Owner. È difficile perché ci sono tantissime persone che chiedono o esigono determinate funzionalità. Massimizzare il valore è una tua responsabilità e lo fai mediante lo stakeholder management e dicendo no”.

Ecco due esempi efficaci per un NO “chiaro e tondo”:

  • non implementiamo la funzionalità X perché non è coerente con la product vision
    Questo è un no molto potente, ma presuppone che abbiate formulato una product vision e che sia stata anche condivisa con gli stakeholder
  • non lavoreremo sul requisito X perché non è di valore per i clienti e gli utenti
    Anche questa affermazione è perentoria e contiene a sua volta un presupposto: che abbiate preso il tempo di validare con questi interlocutori cosa sia realmente di valore.

In sostanza il presupposto per poter dire no con credibilità è fare bene l’attività di stakeholder management. Attendiamo “50 Shades of No” per prendere altri spunti…

Non tutti gli stakeholder sono ugualmente importanti

“Chi sono i tuoi stakeholder e con chi spendi il tuo tempo?” ci chiede Chris.
Nella sua esperienza ha incontrato molti product owner che trascorrono tanto tempo a gestire gli stakeholder (e questa di per sé è una cosa positiva!) senza tuttavia fare dei distinguo in termini di importanza o dedicando troppa energia a quelli meno importanti.
Gli stakeholder meno importanti sono solitamente quelli con poco potere e poco interesse per il prodotto finale; gruppi di persone che dovrebbero essere tenuti d’occhio saltuariamente.

“Nelle pratiche quotidiane molti PO sembrano dare ugualmente importanza a tutti. Mi dispiace… questo non è vero! Non tutte le parti interessate sono ugualmente importanti! Alcuni hanno un alto interesse per il prodotto, altri un interesse basso… alcuni hanno molto potere, altri no… alcuni collaborano con voi nella creazione, altri sono solo interessati all’impatto che il vostro prodotto avrà sul loro dipartimento e sulle persone”.

E’ fondamentale secondo il coach essere ben consapevoli di quali sono gli stakeholder più importanti e meno importanti. Robbin Schuurman ci suggerisce di creare una mappa degli stakeholder così da organizzare il nostro tempo con le parti interessate in modo più efficace, efficiente e intelligente (è un tema che abbiamo toccato in relazione agli stakeholder).

Esercitati ad agire da owner

Non è inusuale all’inizio della carriera come PO trovarsi in situazioni in cui non si ha alcun mandato, alcun potere decisionale o alcuna libertà. E’ capitato a tutti noi e in breve tempo abbiamo realizzato che dovevamo rimboccarci le maniche.
Non è la Scrum Guide o qualche guru dell’Agile a venirci in aiuto quando si tratta di guadagnare autorevolezza sul campo di gioco.

Quello che potete cominciare a fare (in qualsiasi momento) è comportavi da “owner”, da proprietari del prodotto.
Non avete bisogno di chiedere il permesso di sviluppare una nuova funzionalità o dedicare del tempo alla risoluzione di bug o alla riduzione del debito tecnico. Schuurman ci incita a comportarci da proprietari e non da proxy.

“Devi smettere di fare lo scriba e iniziare a comportarti da owner! Il modo in cui ti presenti agli stakeholder, il modo in cui presenti il tuo prodotto e il modo in cui agisci (parli, ti comporti, ti presenti, ecc.) determinano il mandato che ottieni! Se inizi ad agire come un vero product owner, ad assumerti la responsabilità, a formulare un piano dimostrando che ti prendi cura del prodotto e del tuo team, questo ti aiuterà ad aumentare il tuo mandato”.

Questo è un punto cardine sottolineato dall’autore: tra le responsabilità del PO c’è creare un piano, costruire il prodotto e renderlo di successo (in questo ordine!). Se non ti sei preso il tempo di elaborare un tuo piano qualcun altro te ne affibbierà uno. Del resto la delivery ha bisogno di una tabella di marcia, una previsione, una guida per un arco di tempo che va dai 3 ai 6 mesi, senza che diventi “il santo graal” né tantomeno sia scolpito nella pietra.
Piano e vision devono precedere la creazione del product backlog.

Smetti di fare il piccione viaggiatore…

Schuurman riporta la sua esperienza di coaching: “Quello che vediamo fare abbastanza spesso dai Product Owner è che iniziano a fungere da proxy, un gateway, l’unico punto di ingresso, verso il team di sviluppo.
Il team non sono autorizzati a parlare con gli stakeholder, i clienti e gli utenti; tutte le comunicazioni in questi team passano attraverso il Product Owner
”.

Esercitare il controllo non significa fare da tramite tra gli stakeholder e il team.
Questa mala pratica ha un costo enorme in termini di tempo per il PO oltre a rivelarsi inefficace e diseducativa per lo Scrum team.

Un product owner consapevole del proprio ruolo supporta il più possibile la comunicazione diretta tra stakeholder, clienti, utenti, business, sales e sviluppo.
In questo modo il team recepisce direttamente i feedback sul prodotto, acquisisce comprensione degli utenti e del business.
Per quanto il mandato del PO sia ampio e versatile non c’è bisogno di affrontare tutti i problemi da solo; si può fare leva sulla squadra nel momento in cui ha compreso la visione di prodotto, la direzione in cui vuoi andare e quali sono i prossimi passi da compiere.

Tra i valori agili ci sono l’autonomia e il coraggio: non dimentichiamo di lasciare spazio al team per esercitarli! Una volta che il PO ha condiviso la vision di prodotto e ha fornito un obiettivo chiaro per lo sprint , lascia che gli sviluppatori si organizzino a riguardo e che prendano tutti i contatti che servono per costruire al meglio le funzionalità richieste, compresa la comunicazione diretta con gli stakeholder.
E se proprio qualcosa va storto, c’è la Sprint Retrospective con il team per scoprire cosa non ha funzionato e come migliorare in futuro.

Le 3 C delle user stories: carta, conversazione e conferma

Oggi parliamo di storie, un grande classico per i product owner, e andiamo alla base della loro costruzione esplorando insieme le 3 C delle user stories: carta, conversazione e conferma.

Ma cosa sono le user stories? Sono semplici descrizioni, contenute in una frase, di ciò che un determinato utente vuole ottenere raccontate dal suo punto di vista.
Sono nate nell’ambito dell’Extreme Programming prima dell’inizio di questo millennio (la loro origine si fa risalire al 1998) e sono poi diventate popolari in tutti i processi agile.

User story: qualche esempio di scrittura delle card

Facciamo qualche esempio pratico per capirci meglio.
Immaginiamo di stare sviluppando un sito di annunci (i cosiddetti classified) che consente a venditori e acquirenti di scambiarsi beni materiali e servizi accordandosi tra privati.
La nostra piattaforma avrà user stories come queste:

  • come utente di <nome della piattaforma> , posso effettuare ricerche su articoli specifici.
  • come venditore, posso facilmente consultare la lista di tutti i potenziali acquirenti interessati al prodotto che ho messo in vendita.

Come vedete sono frasi brevi che descrivono cosa un utente vuole fare, raccontate secondo il suo punto di vista.
Un’altra cosa che possiamo notare è che abbiamo più tipologie di utenti: nel primo caso parliamo di un utente generico, nel secondo adottiamo il punto di vista di uno dei principali attori della piattaforma (in venditore).

Possiamo fare la stessa cosa mettendoci dal punto di vista dell’acquirente:

  • come potenziale acquirente di una macchina usata, voglio poter vedere delle foto del veicolo.

Cosa manca ancora in questo esempio?
Manca un dettaglio che per me è la parte più importante delle user stories, la cosiddetta clausola so-that.
Ciò che spiega perché un determinato utente vuole una certa cosa, qual è la sua finalità, qual è il risultato finale a cui tende (o outcome).

La storia potrebbe prendere allora questa forma:

“come potenziale acquirente di una macchina usata, voglio poter vedere delle foto del veicolo così da potermi accertare delle sue condizioni”

O dal punto di vista del venditore:

“come proprietario di un auto che desidero vendere, posso creare una pagina in cui descrivere lo stato dei veicolo e mostrarlo al suo meglio”

Notate che stiamo parlando della medesima funzionalità (le foto associate al prodotto) da due punti di vista differenti: quello del venditore e quello dell’acquirente.

User story: l’importanza del punto di vista

Bene, abbiamo introdotto il formato più classico con cui si scrivono le user stories:

Come <tipo di utente>, voglio <funzionalità> così da <obiettivo o valore per l’utente>.

Semplice ed efficace! Chiunque è in grado di esprimere un bisogno, una necessità o un desiderio secondo questo formato.
Ma non è solo la semplicità ad essere la chiave del successo delle user stories, l’elemento essenziale qui è la prospettiva: il punto di vista che adottiamo ci aiuta a relazionarci con specifiche tipologie di utenti, a metterci nei loro panni.

Sembra un dettaglio ma non lo è.
Ditemi se vi fa lo stesso effetto esprimere le medesime funzionalità come si descrivevano una volta nei documenti di requisiti …

  • il sistema consente all’utente di effettuare una ricerca
  • il sistema consente all’utente di pubblicare online un prodotto
  • il sistema consente all’utente di associare una o più foto a un prodotto

Il significato di queste affermazioni è lo stesso ma nel primo caso rispondiamo con più empatia perché stiamo mettendo l’utente – una persona – al centro della scena.

User story: la conversazione a partire dalla carta

Un errore in cui cadono spesso i team che muovono i primi passi con i framework agili è pensare che una volta scritta la user story tutto sia chiaro e definito.
In realtà chi ha un po’ più di esperienza alle spalle sa bene che la scrittura è solo l’inizio del gioco.
Non dobbiamo dimenticare che la user story comprende tre C:

  • una scheda o carta (= card),
  • la conversazione (= conversation)
  • criteri di conferma (= confirmation).

Le 3 C sono un’allitterazione ideata da Ron Jeffries per chiarire che una user story è più di un semplice testo scritto su carta fisica o su strumento software.
Le user stories sono brevi, non sono fatte per contenere molti dettagli bensì per agevolare delle conversazioni (si parla anche delle storie anche come “placeholder per conversazioni con il team”).
La carta è solo una delle tre C, la più visibile, e anche quella meno importante.

Mi è capitato in passato di lavorare con team che pretendevano di avere il massimo livello di dettaglio nelle storie; questo desiderio di chiarezza e completezza per quanto comprensibile dà l’illusione che tutto sia stato definito e compreso ma non aiuta le persone ad uscire dalla propria comfort zone e fare il “viaggio di scoperta” nei bisogni dell’utente.
E’ dall’interazione tra il product owner, il team allargato e gli utenti che nasce la vera comprensione di ciò che c’è da fare, non da una frase scritta su un pezzo di carta.

Non si tratta di un modo alternativo di scrivere requisiti, la card è “una promessa a due vie” come dice Mike Cohn:

  • la promessa del team di porre domande prima di iniziare a lavorare su una storia
  • la promessa del product owner di essere disponibile ad approfondire l’argomento.

Questi due aspetti insieme ci evitano di dover scrivere corposi documenti di specifiche contenenti ogni singola funzionalità.

Se il team si parla prima di iniziare a lavorare, il product owner può specificare solo quanto basta per poter avere quella conversazione.
E’ la conversazione in sé che rende agile un team, non la scrittura delle storie, l’utilizzo di post-it o di tool come Jira.

User story: la C di conferma

Quando Mike Cohn illustra questa parte delle storie dice che non gli piace iniziare qualcosa se non capisce come saprà quando ha terminato. E a chi piace questa incertezza?
I criteri di conferma di una user story servono proprio a questo; sono il modo in cui il product owner definisce insieme al team ciò che deve essere fatto affinché lo sviluppo possa essere considerato completo.

Ricordate quando a scuola per la prima volta un insegnante vi ha assegnato un riassunto di un libro? Alzi la mano chi non si è chiesto quanto dovesse essere lungo lo scritto!
Ecco, questo è un classico esempio di criterio di accettazione. Per alcuni professori una sintesi di una pagina è accettabile, per altri non si parla di sufficienza sotto le 3 pagine (e non pensate di barare con la dimensione del testo e l’interlinea!).

Una parte della conversazione tra il team e il product owner prima di lavorare una storia riguarderà proprio i criteri di conferma, ovvero come ciò che sarà sviluppato verrà valutato per l’accettazione durante la sprint review.
Si tratta delle “condizioni di soddisfazione” della storia. In altre parole, affinché il product owner possa considerare la user story fatta, una determinata cosa deve fare questo, quello e quell’altro.

Torniamo al nostro esempio di prima quando parlavamo della possibilità di associare delle foto all’auto che il nostro utente vuole mettere in vendita.
Per questa user story potremmo definire criteri di accettazione di questo tipo:

  • i formati di immagine accettati dal sistema (es. jpg, png, ecc.)
  • il peso massimo della singola immagine
  • la possibilità di vedere un’anteprima dell’immagine caricata
  • e magari anche la possibilità di poter ruotare eventuali immagini capovolte prima della pubblicazione.

User story: la prima C da sola non basta!

Siamo arrivati alla fine del nostro excursus sulle user stories.
Come abbiamo visto le storie non sono un nuovo modo di scrivere i requisiti, ma molto di più. Hanno come minimo 3 funzioni:

  • sono un placeholder per una conversazione sui bisogni degli utenti
  • sono strumenti per capire cosa vogliono gli utenti e cosa ha senso realizzare
  • sono un modo per programmare il lavoro del team.

Quindi ricordatevi di prestare attenzione a tutti e 3 gli aspetti: non solo al testo che andrete a scrivere su una scheda, ma anche alle conversazioni sulla funzionalità e ai criteri di conferma che utilizzerete per determinare se la storia è completa.

Note

Questo post è liberamente tratto dalle lezioni di Mike Cohn sulle user stories. Se volete approfondire vi consiglio il suo corso – molto valido – “Better User Stories“.

Nel blog trovate anche diversi post dedicati alle storie. Eccone qui una piccola selezione:

Backlog declutter 2: come mettere ordine tra le user stories

Come scegliere i requisiti da tenere seguendo il criterio della felicità… dei clienti!

Questa è la seconda parte di un post dedicato al declutter del backlog.
Qui, se ve la siete persa, trovate la prima parte.

Ci siamo lasciati parlando di user stories che hanno campeggiato troppo a lungo nel product backlog senza mai essere state portate in priorità. 
Vediamo quali altri casi sono buoni candidati per l’eliminazione.

Le user stories che ho nel mio backlog  hanno individuato un soggetto reale?
Stiamo parlando di persone o di moduli?
Si tratta di un’attività di valore?
Abbiamo individuato un reale bisogno o solo una soluzione tecnica?
Queste storie sono ottimi spunti per fare pulizia.
E poi la coerenza con la strategia generale. Potremmo avere in realtà degli item così vecchi che sono ormai superati perché le strategie aziendali hanno preso una direzione differente.

Sono tutte considerazioni che possiamo fare.
Non temete di eliminare troppo, non rimarrete mai senza nulla…
Se invece vi sentite sopraffati dall’impresa non scoraggiatevi. 
C’è sempre chi ha affrontato di peggio, come nel caso di una transizione a LESS in cui si è passati da 508 item a 23 user stories. Qui probabilmente si erano spinti un po’ troppo in là con la granularità, però è un buon esempio del fatto che è possibile fare un’operazione significativa di pulizia. 
Come? Seguendo gli step che stiamo percorrendo noi… hanno fatto un lavoro colleggiale, hanno stampato tutti gli item e li hanno classificati, che è esattamente il passo successivo.

Adesso con tutte le card davanti a noi concentriamoci su quali criteri utilizzare nel processo di eliminazione.

Categorizzare le user stories

Per fare ordine dopo la fase dell’eliminazione si passa al categorizzare. 
Riordinare per categoria è un altro principio cardine nella gestione del clutter fisico. 
Non si riordina stanza per stanza ma categoria per categoria: vestiti, libri carte, ricordi.
Andremo a individuare delle categorie e a classificare gli item uno alla volta. 
Ognuno di voi dovrà trovare il criterio che meglio si adatta al proprio caso. 

Ecco qualche idea: categorizzate per epiche, step dello user journey, impatti, stakeholder o obiettivi di business. Potete focalizzarvi sul contenuto, sul valore, sugli interlocutori e molto altro. 
Il mio consiglio fondamentalmente è di provare varie classificazioni e vedere quella che meglio si adatta al vostro caso. Personalmente ho iniziato utilizzando gli step del processo poi mi sono resa conto che non era esattamente ciò di cui avevo bisogno, era troppo vincolante mentre mi sono trovata molto meglio con quelli focalizzate sulla parte dei contenuti.

Mettere a confronto

Una volta che siete riusciti a categorizzare le vostre storie dovete fare un lavoro all’interno di ognuna di queste categorie e procedere per confronti.
In sostanza avete definito dei sotto raggruppamenti nel backlog e in ognuno di questi fate un lavoro di prioritizzazione.
Potreste scoprire anche in questa fase che qualcosa può essere ancora eliminato. Ad esempio se provassimo a vedere ognuna di queste categorie attraverso il principio di Pareto qual è il 20% delle user stories che producono 80% del valore?
Quali sono dei must? Quali should o could?
Siamo in grado di individuare i must-have per gli utenti e quelle storie che invece possono fare la differenza ed essere dei delighters?
Trovate il focus!
Provate a riconsiderare ognuna di queste categorie sulla base di varie tecniche di prioritizzazione. Più una… che ho tenuto a parte.

La felicità come criterio di scelta

Questa è un’idea mutuata proprio dal declutter: non dovremmo scegliere che cosa buttare bensì scegliere cosa tenere. E il criterio in questo caso è conservare solo ciò che ci rende felici, che ci fa sentire bene, che ci risuona emotivamente.
Non voglio prendere una deriva new-age fricchettona, dico solo che questa idea può essere trasposta nella gestione del backlog.
Quanta felicità una determinata storia porta ai nostri utenti?
In una scala di felicità siamo sicuri che l’ordinamento che ci siamo dati sia quello corretto? Riesco a produrre un impatto significativo nei miei utenti?

Continuare a prendersi cura

Bene una volta che abbiamo fatto questo repulisti, abbiamo organizzato i nostri item per categorie e abbiamo dato anche un ordine di priorità guardiamo con un occhio più attento ogni singolo elemento che abbiamo conservato.

Dobbiamo verificare che sia tutto effettivamente in ordine. Andare a vedere se ognuno di questi item che abbiamo conservato è completo, ha la struttura corretta, se abbiamo individuato realmente chi sono gli interlocutori e quali sono i loro bisogni.
E capire se sono coerenti con lo scenario attuale.

Una delle cose che si possono fare è focalizzarsi sulla prossima release di prodotto e cercare di associare al backlog una roadmap di prodotto per gli sviluppi più avanti nel tempo. 
Anche qui facciamoci delle domande per verificare che effettivamente quello che abbiamo conservato sia in buono stato: abbiamo tenuto conto di tutti gli interlocutori?
Abbiamo individuato bisogni espliciti ed impliciti?
Tutto questo è coerente con la strategia più generale?

Dopodichè non ci resta che…

Evitare le ricadute

Bisogna evitare di tornare nella situazione dalla quale siamo partiti. Come possiamo farlo? Dobbiamo avere attenzione nei confronti di ciò che a questo punto entra all’interno del backlog. E qui possiamo cogliere diversi spunti.
Diamoci una finestra temporale. In un armadio teniamo i vestiti per la stagione in corso, perché non nel backlog?
Facciamo in modo che il nostro backlog sia focalizzato sui prossimi tre mesi massimo sei mesi magari.

Utilizziamo un criterio che definisca esattamente che cosa è pronto per il backlog e tutto quello che non lo è può essere inserito in una sorta di waiting box / may be box (un contenitore dove inseriamo tutta una serie di buone idee da cui potremmo andare a pescare successivamente).

Teniamo sott’occhio la ratio delle cose che entrano ed escono oppure diamo un limite esplicito al nostro backlog. Alcuni ad esempio si impongono una certa soglia oltre la quale non andare proprio perché appunto la visione complessiva del backlog si sfilaccia.

Vedere l’ordine

Un altro suggerimento che potrebbe esservi d’aiuto nel mantenere l’ordine è tenere sotto controllo il backlog utilizzando diverse modalità di visualizzazione.

Chi ha letto il libro di Marie Kondo sa che uno dei consigli più preziosi e totalmente controintuitivi è disporre gli indumenti nei cassetti in un modo diverso che uno sopra l’altro bensì in verticale.


Questa idea mi ha fatto riflettere e mi sono resa conto che a volte siamo troppo condizionati dalla strumento che utilizziamo per gestire il backlog.
Proviamo ad andare oltre jira e tool simili che mostrano il backlog come una lunga lista di item.
Vi invito a sperimentare modalità alternative che tengano conto non solo della quantità ma anche del contenuto del backlog.

Non voglio sapere semplicemente quanti item ho ma vorrei capire anche meglio come sono distribuiti sui vari contenuti.
Ricordate le categorie di cui abbiamo parlato prima? Voglio capire che tipo di gerarchia esiste tra i vari elementi, voglio avere più visibilità delle connessioni, voglio vedere la granularità. 

Qui le possibilità sono svariate: dal classico backlog analogico su parete, alla modalità story mapping, mappe mentali e mappe ad albero.
In questa presentazione potete vedere i vari spunti che ho solo raccolto alcuni spunti ma sono curiosa di capire se voi ne vedete altri o ne avete magari già utilizzato alcuni che ritenete particolarmente efficaci.