I 3 tipi di Jobs To Be Done

Un paio di settimane fa abbiamo parlato della teoria dei Jobs To Be Done introdotta dal professor Christensen in un paper pubblicato sulla Harvard Business Review nel 2005.
Oggi ci focalizziamo sui 3 tipi di Jobs To Be Done che esistono nel framework.

I tipi di clienti

Consentitemi una premessa prima di entrare nel vivo dell’argomento.
Per poter correttamente definire i lavori da fare abbiamo necessità di comprendere le esigenze dei nostri clienti, cosa vogliono esattamente ottenere e – ancora prima – chi sono.
Può sembrare banale ma non lo è, soprattutto nei contesti B2B.

Nel framework JTBD si parla di 3 categorie di clienti serviti dalle aziende:

  • l’esecutore del lavoro: la persona che utilizza il prodotto per portare a termine un determinato lavoro;
  • il team di supporto del prodotto: è costituito dai diversi gruppi di persone che supportano il prodotto durante il suo ciclo di vita a vario titolo. Sono ad esempio le persone che installano, fanno manutenzione o aggiornano il prodotto; coloro che intervengono nella catena del consumo;
  • l’acquirente: la persona responsabile della decisione d’acquisto.

In un contesto B2C è molto frequente che il consumatore sia anche l’acquirente del prodotto mentre nelle aziende B2B l’esecutore del lavoro è ad esempio un professionista, il team di supporto per il ciclo di vita del prodotto può essere composto da un’equipe e l’acquirente è in genere una persona che fa parte dell’amministrazione.

Per utilizzare il framework in maniera proficua è fondamentale identificare i diversi tipi di clienti e i relativi contesti prima di approfondire le dimensioni del lavoro.

I 3 tipi di Jobs To Be Done

Abbiamo capito come si classificano i clienti, passiamo ora al lavoro da fare.
Secondo l’ideatore del framework ci sono tre dimensioni principali di cui dobbiamo tenere conto.

I 3 tipi di Jobs To Be Done

La dimensione funzionale

Questo è l’aspetto più evidente del “lavoro”.
Risponde alla domanda “quale compito vuole realizzare il cliente con il mio prodotto o servizio?”.
Il job funzionale è strettamente legato ai compiti da svolgere e agli obiettivi da raggiungere.

Prendiamo l’esempio del trapano che ricorre spesso negli aneddoti su JBTD.
Il trapano consente al cliente di fare fori nella parete della dimensione desiderata. Il risultato che la persona vuole ottenere è disporre i propri libri in bella vista su una mensola in salotto.
L’atto di praticare i fori nella parete è l’aspetto funzionale del lavoro.

Il lavoro funzionale è il punto focale attorno al quale si definisce un mercato e la ragione per cui esiste un business.
Nel framework JBTD l’obiettivo primario di qualsiasi prodotto è quello di aiutare a svolgere il lavoro funzionale in modo migliore e più economico rispetto alle soluzioni alternative.

Tenete presente che possono esistere anche lavori correlati: sono attività funzionali aggiuntive che l’esecutore del lavoro esegue prima, durante o dopo il lavoro principale. Ricordate l’idea che il cliente preferisce un unico prodotto per completare il lavoro?
Ecco, i lavori correlati sono di frequente poco considerati e le aziende in grado di soddisfare anche questi aspetti rendono più preziosi i loro prodotti.

La dimensione emotiva

Quando un cliente utilizza un prodotto per svolgere un lavoro funzionale spesso desidera sentirsi in un certo modo ed essere percepito sotto una certa luce dagli altri.

Attenzione! A detta di molti questa è la parte più delicata del framework JBTD.
Qui è necessario capire quali emozioni prova il cliente in relazione al lavoro da fare (prima, durante e dopo l’esecuzione) e come desidera essere percepito.

Nell’esempio del trapano potrebbe essere la paura di sbagliare, di non eseguire il lavoro correttamente o di rovinare il muro (non ridete, a me è capitato).
Cosa potrebbe essere rassicurante in questa situazione? Magari comunicare che il trapano in questione è uno strumento sicuro e che previene di commettere sbagli anche quando il cliente è alle prime armi.

La dimensione sociale

Infine, c’è un aspetto che ha a che fare con il nostro essere umani, ovvero animali sociali.
Il job sociale si riferisce a come il cliente vuole apparire agli occhi degli altri e che tipo di status vuole ottenere.

Le nostre decisioni sono influenzate più o meno consapevolmente dal parere di chi ci circonda e dalle conseguenze che le nostre azioni potrebbero avere su di loro.
Ad esempio montare correttamente la mensola significa dimostrare che sono una persona autonoma e capace nel fai-da-te, in grado di prendersi cura della propria casa.

Per mappare le 3 dimensioni dei lavori e il risultato desiderato potete utilizzare un canvas Jobs To Be Done.

Jobs To Be Done canvas – credits Laurent Bouty

Identificare il Job To Be Done più rilevante

I clienti possono assegnare a una delle 3 dimensioni un valore maggiore rispetto alle altre e non è detto che si tratti sempre del job funzionale. Pensate ad esempio all’acquisto di un rossetto o di un qualsiasi prodotto di bellezza…

Anche quando per noi la scelta sembra non avere alcun senso, per il cliente ce l’ha.
Vuole raggiungere un risultato e gli occorre un prodotto per farlo; si riterrà soddisfatto solo quando avrà appagato il suo bisogno.

La comprensione dei diversi tipi di lavoro e del loro peso relativo consente alle aziende di creare proposte di valore con componenti sia funzionali che emozionali e di realizzare una comunicazione di prodotto più incisiva.

L’importanza del job e la soddisfazione

A questo punto vi potreste chiedere: una volta individuate le 3 dimensioni dei jobs to be done e la priorità tra funzionale, emotivo e sociale possiamo iniziare a concettualizzare le soluzioni?

In realtà ci sono due aspetti che potremmo considerare pre-condizioni e che è fondamentale sondare prima di arrivare allo sviluppo vero e proprio.
Dobbiamo rispondere a due domande:

  1. il cliente è davvero interessato a risolvere il problema che vediamo?
  2. quanto è soddisfatto con le attuali alternative presenti sul mercato?

Se il consumatore non pensa che sia un problema per cui vale la pena risolvere o modificare il proprio comportamento – come capita ad esempio con acquisti ricorrenti di scarsa importanza e basso importo – è meglio rivedere il proprio focus.
Allo stesso modo se un altro prodotto consente già di svolgere il lavoro con successo sarà più difficile acquisire quote di mercato con una nuova soluzione ed è consigliabile valutare a priori i margini di profitto ottenibili in queste condizioni.

In sintesi per determinare l’opportunità di business devi sapere quanto è importante per il tuo cliente il job to be done e determinare il grado di soddisfazione rispetto alle offerte attuali.

“Prendi queste due cose – importanza e soddisfazione – e se le persone non sono soddisfatte, allora hai una grande opportunità”.

Risorse Jobs To Be Done

Vi lascio con qualche spunto di riflessione sul tema e un template alternativo per raccogliere le vostre osservazioni.

E ora buon lavoro… da fare!

Jobs To Be Done: ridefinire il prodotto attraverso il lavoro

Cosa sono i Jobs To Be Done

Oggi parliamo di Jobs To Be Done, un altro strumento che Product Owner e Product manager possono utilizzare per creare prodotti e servizi di valore.

Jobs To Be Done è un framework che aiuta le aziende a focalizzarsi sui problemi dei clienti e a costruire nuovi prodotti o ottimizzarne di esistenti in risposta a quei bisogni.

Abbiamo già parlato di outcome in passato… JTBD è un approccio outcome-driven perché definisce la finalità – l’outcome – per la quale i clienti acquistano prodotti, soluzioni o servizi specifici.

“Le imprese vogliono pensare in termini di categorie.
I consumatori vogliono che pensiamo in base alle loro esigenze.”

Ideatore di questa teoria è il professor Clayton Christensen della Harvard Business School secondo il quale alla base dell’acquisto sta l’idea di svolgere un lavoro “meglio e ad un costo minore”.

Il marketing tradizionale mette in relazione la scelta di un prodotto ai target, segmenti di utenza caratterizzati da profili socio-demografici comuni; Clayton sostiene invece che per comprendere le reali motivazioni che spingono all’acquisto è necessario focalizzarsi su “tutte le cose che le persone stanno cercando di fare nella loro vita in termini di compiti che tentano di svolgere o completare, di problemi che cercano di risolvere o di bisogni che provano a soddisfare”.
Sono questi i job to be done.

La segmentazione del mercato secondo la teoria JBTD

Pensate: anche il milkshake è un prodotto che aiuta a svolgere un lavoro… quale?
Scopritelo in questa intervista al professor Christensen che con il suo team ha condotto un’analisi per una famosissima catena di fast food.

I jobs to be done perdurano nel tempo

Le persone acquistano prodotti e servizi per portare a termine un determinato lavoro e mentre i prodotti vanno e vengono, il lavoro da svolgere non scompare.

Facciamo un esempio: pensate per un momento a com’è cambiata la fruizione della musica negli anni. Quando ero piccola utilizzavamo mangianastri e vinili, supporti molto diversi rispetto alle possibilità che abbiamo oggi di fare streaming direttamente dal cloud.
I prodotti e i modelli di business si sono evoluti enormemente, ciò che è rimasto costante è il job to be done ovvero ascoltare la musica.

Conducendo un’analisi JTBD è possibile ottenere una comprensione più profonda del modello mentale dietro le decisioni di acquisto e del risultato che un cliente desidera raggiungere. In questo modo si arriva a una definizione della strategia di prodotto più chiara.

E’ possibile applicare il framework JTBD per decostruire i vari lavori in passaggi specifici e mappare le relative esigenze dei clienti per identificare opportunità di crescita.
Invece di focalizzare l’attenzione sui prodotti che diventeranno sicuramente obsoleti, questo approccio suggerisce alle aziende di progettare l’attività intorno ai lavoro da svolgere così da rimanere concentrata sulla creazione di soluzioni valore e garantirsi sostenibilità nel tempo.

La formula standard per descrivere un job to be done

Il lavoro è l’unità di analisi

Questa teoria porta con sé un cambio di paradigma: la vera innovazione non avviene migliorando i prodotti esistenti, bensì trovando modi migliori per portare a termine i lavori.
Si smette di studiare il prodotto per approfondire invece il lavoro che le persone stanno cercando di svolgere.
Il lavoro, non il prodotto, è l’unità di analisi.

Quello che mi sembra particolarmente convincente in questo approccio – così come con lo strumento delle personas – è il cambio di prospettiva: dall’oggetto al punto di vista del soggetto che lo fruisce e ai risultati che desidera raggiungere.

Il mercato viene ridefinito in base ai vari lavori funzionali da svolgere e non più attorno a un prodotto, una tecnologia o una soluzione.
Quando si applica la teoria dei jobs to be done ci si focalizza su due aspetti principali:

  • l’esecutore del lavoro (il soggetto);
  • il lavoro che l’esecutore sta cercando di svolgere.

In quest’ottica i genitori che cercano di trasmettere lezioni di vita ai propri figli rappresentano un mercato. I genitori sono gli esecutori e trasmettere le lezioni di vita è il loro compito primario.
Definire un mercato in questo modo apre la porta a un diverso tipo di ricerca poiché l’obiettivo diventa analizzare il lavoro per scoprire dove gli esecutori fanno fatica a portarlo a termine piuttosto che analizzare i prodotti che usano a tale scopo.

Vi faccio un altro esempio: un cliente vuole comprare una macchina più grande. Qual è la finalità che lo guida? Quale il suo contesto? Ha una famiglia numerosa o gli serve un’auto spaziosa perché ama sciare e viaggia spesso con l’attrezzatura sportiva al seguito? La risposta a queste domande apre scenari del tutto differenti.

Quando i clienti eseguono un lavoro hanno in mente una serie di criteri che ne definiscono la corretta esecuzione. Quei criteri, che corrispondono alle metriche con cui misurano il raggiungimento dell’obiettivo, sono intuizioni preziosissime per la creazione di prodotti e servizi di valore.

Un unico prodotto per l’intero job to be done

Una volta mappate tutte le esigenze del cliente si arriva a comprendere quali non sono soddisfatte dalle soluzioni esistenti.
Teniamo a mente che il nostro scopo come Product Owner è aiutare i clienti a portare a termine l’intero lavoro.
Da una parte dobbiamo considerare quali aspetti non sono ancora appagati dai prodotti attuali, dall’altra – quando lo sono – di quanti prodotti gli esecutori hanno bisogno.

Questo è spesso un aspetto sottovalutato e merita particolare attenzione.
E’ molto frequente che i clienti debbano mettere insieme diverse soluzioni per completare l’intero lavoro. Questo è una scomodità perché le persone non vogliono “doversi sbattere” con più prodotti per raggiungere i propri obiettivi; vogliono qualcosa che consenta loro di fare tutto il “job”.

La chiave del successo è capire, dal punto di vista del cliente, qual è l’intero lavoro e fare di quel lavoro il punto focale della creazione di valore.

La differenza tra un approccio orientato al prodotto e uno orientato al job to be done

Conclusioni

Jobs To Be Done è una tecnica potente che può essere applicata ogni volta che si desidera identificare opportunità di innovazione in relazione allo sviluppo del prodotto, all’eccellenza operativa o al miglioramento della relazione con il cliente finale.

Dal mio punto di vista questo approccio è particolarmente interessante perché:

  1. si focalizza su ciò che il cliente vuole ottenere
  2. motiva la scelta di prodotto in base all’outcome desiderato
  3. migliora la customer experience grazie ad una maggiore comprensione dell’utente

Nel prossimo post approfondiremo i vari tipi di job to be done con esempi specifici (ne esistono 3) e prenderemo familiarità con il template del framework.
A presto!

Riflessioni di fine anno in tema di prodotto

Oggi permettetemi una digressione e un post più “personale” del solito.
Siamo alla fine di un anno molto intenso, corto e allo stesso tempo lunghissimo.
In questi giorni si moltiplicano i meme di auguri per il nuovo anno che cercano di esorcizzare tutto ciò che abbiamo passato.
Io non ho nulla di cui lamentarmi. Sono tra le fortunate che non ha avuto gravi problemi in famiglia e nel giro di amicizie, ho preso il Covid ma in maniera molto lieve e ne sono uscita senza strascichi. Questo peraltro mi sta consentendo di trascorrere le feste serenamente in famiglia senza l’assillo di poter contagiare genitori in là con gli anni.
Insomma pur essendo stato un anno complicato, un anno duro, il mio personale bilancio è comunque positivo.
Mi sono fermata a pensare a quali insegnamenti – dalla prospettiva di persona di prodotto – mi porto a casa alla fine di questi 12 mesi e ve li condivido.
Non sono riflessioni del tutto nuove, per lo più maggiori consapevolezze.
Spero che anche voi abbiate trovato lati positivi in questo caos (magari non solo la possibilità di fare le call indossando i pantaloni del pigiama).

L’ascolto non scontato del cliente

Ho sempre immaginato che le grosse realtà B2C fossero tra le aziende più propense all’ascolto del cliente, in particolare le realtà del settore e-commerce.
Con mia grande sorpresa ho scoperto che non è sempre così.
Non voglio generalizzare perché non ha senso, ma mi sento di dire che non esiste una correlazione diretta tra la dimensione dell’azienda e l’attitudine ad essere customer-centric, così come tra l’autorevolezza del brand e l’ascolto del pubblico.
Esistono piccole realtà che fanno dell’ascolto del cliente un arte così come grosse società retail che danno per scontato di conoscere perfettamente la propria customer base e non “perdono tempo” con l’analisi dei bisogni dell’audience.

La propensione all’ascolto non è una questione di mezzi a disposizione, è soprattutto un tratto della cultura dell’azienda e – come tutti gli aspetti valoriali – non è soggetto nel bene e nel male a cambiamenti repentini.
Per me l’ascolto del cliente è un aspetto fondante della product ownership quindi ho imparato ad indagare l’argomento in profondità durante i colloqui e a metterlo alla prova spesso e volentieri nel lavoro di tutti i giorni.
Quando riconosco questa apertura nei miei interlocutori per me è una gioia perché so che potrà essere fatto un lavoro di qualità sui prodotti.

Il valore è negli occhi di chi guarda

Molto spesso nel mio ruolo mi sono trovata ad argomentare il valore di un prodotto o di un servizio e con l’esperienza questa attività è diventata sempre più “automatica”.
Ciò non toglie che la mia personale prospettiva non può in alcun modo supplire quella dell’utente finale.
Quando progettiamo qualcosa di nuovo facciamo analisi, ricerche, discovery per comprendere meglio le necessità dell’audience ma la prova del nove finale l’abbiamo solo ed esclusivamente quando il prodotto finito va nelle mani dei clienti. E qui la storia dell’innovazione è piena di oggetti e servizi di successo creati per uno scopo e utilizzati per tutt’altro.
Ricordo un professore all’università che ci parlava di come il significato di un testo una volta pubblicato viene interpretato dal pubblico e non coincide più con il messaggio dell’autore.
Nel mio lavoro accade la stessa cosa; ecco perché voglio vedere il risultato finale dalla prospettiva di chi lo guarda, lo esperisce e lo utilizza.
Da quel punto di vista scopro nuovi significati di cui non ero consapevole.

Il team è più della somma dei singoli individui

Questo è stato un anno di cambiamento per me. Nel bel mezzo della pandemia ho lasciato il mio impiego precedente per assumere il ruolo di Head of Product in una nuova società.
Mi piacciono i cambiamenti e li vado a cercare quando capisco di non poter fare il mio lavoro nelle condizioni che ritengo corrette.
Sono felice delle novità che questa evoluzione ha portato ma in questi ultimi mesi ho realizzato quanto mi manca la realtà del team cross-funzionale che gestisce il prodotto end-to-end.
Sarà che l’ultima esperienza in Lastminute per me è avvenuta con un gruppo di persone straordinarie, sarà che mi manca l’atmosfera di continuo brainstorming e il lavoro serrato sulla validazione di ipotesi, ma una volta di più ripeto uno dei miei mantra preferiti: “Product is a team game!”.
Da sola posso comunque creare valore, ma ciò che posso fare all’interno di un team dove sono presenti diverse professionalità e background non è neanche lontanamente paragonabile. Il tutto è più della somma delle singole parti!
Quindi andate a cercare chi sfida le vostre idee, chi le mette in discussione, chi vi chiede perché e porta prospettive alternative.

Il prodotto non è una monade

A volte quando siamo focalizzati nel migliorare un particolare aspetto di un prodotto o di un servizio possiamo perdere di vista l’insieme. Può succedere anche quando abbiamo la responsabilità in toto di un prodotto digitale. Ci concentriamo su questo e perdiamo l’attenzione su tutto ciò che succede prima e dopo la vendita.
Ma il prodotto non è una monade e chi lo utilizza si è prima informato in proposito, ha chiesto pareri, ha fatto ricerche e – una volta perfezionato l’acquisto – valuta la qualità del post-vendita, la gentilezza dell’assistenza clienti e l’efficacia nel fornire risposte.
Intendo dire che i confini del prodotto non sono netti e di certo l’esperienza utente è a 360 gradi.
Se dimentichiamo che ciò che abbiamo rilasciato in produzione vive all’interno di un’ecosistema potremmo sottovalutare potenziali criticità o non cogliere tutte le opportunità che lo scenario offre.

La passione premia sempre

Anche in un anno così difficile è la passione che mi ha guidato verso nuovi lidi.
Faccio il mio lavoro perché ne sono appassionata, scrivo di product ownership perché mi piace condividere queste idee, frequento eventi Agile perché mi arricchisco nello scambio con i colleghi.
Molto del tempo che dedico a questi temi non porta soldi e va bene così. Lo faccio perché mi rende una persona migliore, più consapevole, più attenta, più curiosa.
Poi, quando meno te l’aspetti, questa passione genera opportunità inattese.
Non si può mai sapere dove porta il “flow” e le sorprese sono a volte oltre ogni aspettativa.

Quindi per il 2021 vi auguro di coltivare grandi passioni e percorsi di crescita.
May the passion be with you!