Pensare per risultati: le differenze tra output, outcome e impatto

Torno su un tema che ho già trattato e che mi è particolarmente caro – la differenza tra output e outcome – aggiungendo un bit in più, ovvero il concetto di impatto.

Perché riproporre questo argomento? Semplicemente perché occupandomi tra le altre cose di formazione sui temi dell’Agile e del product management continuo a vedere persone che inizialmente fanno davvero fatica a capire le differenze.

Diciamocelo… siamo molto più abituati a pensare per azioni che per risultati.
La cultura del fare nel bel paese e altrove sembra essere ancora dominante rispetto all’idea di “fare le cose giuste”.

Il punto è che io posso mettere in campo un sacco di attività – ad esempio – per portare più traffico sul mio sito ma alla fine non tutte le iniziative si riveleranno produttive: alcune lo saranno più di altre, alcune non lo saranno affatto, poche faranno veramente la differenza e sposteranno i numeri dell’acquisition.

Prendiamoci allora il tempo di capire bene questi concetti e di non ricadere nell’approccio del fare tanto per fare.
Andy Grove – CEO di Intel per tanti anni e padre degli OKR – già negli anni ‘70 diceva

“Ci sono così tante persone che lavorano duro e ottengono così poco”.

Quanto spreco! Possiamo tutti imparare a fare meno e a scegliere quelle attività che possono davvero spostare l’ago della bilancia.

Definizione di output, outcome e impatto

Output

Partiamo dalla cosa più semplice: l’output è un’attività, un’azione che facciamo per raggiungere un determinato obiettivo.
Difficilmente ci confondiamo su questo concetto perché gli output sono tangibili, sono qualcosa che possiamo vedere / toccare / esperire e quindi è molto facile capire se una determinata cosa è stata fatta oppure no (es. la presentazione che il tuo responsabile ti ha chiesto, l’aggiunta di filtri avanzati di ricerca sul sito, l’avvio della campagna marketing per un cliente retail, ecc.).
L’output c’è o non c’è, quali risultati produca è tutta un’altra storia.

Outcome

Joshua Seiden nel suo libro “Outcomes Over Outputs” definisce l’outcome come “un cambiamento nel comportamento umano che guida i risultati aziendali.” 

L’outcome è il risultato che le azioni che fai producono; si tratta di cambiamenti nel comportamento di clienti, utenti e dipendenti che portano cose positive (si spera!) per la tua azienda, la tua organizzazione o chiunque sia al centro del tuo lavoro.

I risultati non sono direttamente correlati con la creazione di funzionalità, anche se a volte arrivano creando le cose giuste. Idealmente – sottolinea l’autore – si verificano quando hai creato il minor numero possibile di funzionalità.

Fare cose insomma non significa necessariamente fare progressi verso un determinato obiettivo. Se la presentazione che hai prodotto non sblocca il budget per perseguire il nuovo progetto R&D, se l’aggiunta di filtri avanzati non riduce i tempi di ricerca con risultati sul sito, se la campagna marketing non genera traffico il tuo output non ha prodotto alcun outcome (e – fidatevi – questa situazione è estremamente comune se consideriamo la statistica che il x% delle funzionalità non cambia…).

L’outcome ha a che fare con il valore generato per i nostri interlocutori.

Impatto

Alcuni utilizzano outcome e impatto in maniera intercambiabile… non è del tutto sbagliato; dal mio punto di vista dipende dal contesto.
Se penso ad esempio ad uno strumento come la Impact Map l’impatto è proprio definito come una modifica del comportamento negli attori del sistema, in altri casi l’impatto è considerato un cambiamento che avviene su una scala più grande (pensate all’impatto sociale o organizzativo). In questa seconda accezione l’impatto è un cambiamento di portata maggiore, che interessa gruppi di individui, organizzazioni o intere società (in molti casi potrebbe essere definito ad esempio nella mission di un’azienda).

W.K. Kellogg Foundation
Logic Model Development Guide

Ciò che non mi convince del tutto in questo modello è proprio la collocazione dell’output all’interno dei risultati attesi… l’output non è affatto un risultato bensì la nostra migliore scommessa su ciò che c’è dev’essere fatto per raggiungere un certo risultato. 

Esempio del Logic Model

Perché pensare per risultati fa la differenza…

Capite perché l’enfasi sui risultati innesca un cambio culturale? 
L’accento sul “fare cose” è un’eredità di un’epoca in cui producevamo principalmente beni fisici e la sfida principale era fare bene le cose. Oggi viviamo in un mondo molto più digitale e immateriale dove l’attenzione si sposta dai beni fisici ai servizi e alle esperienze nel loro complesso, un contesto in cui per lo più meno è meglio (“la semplicità – diceva Leonardo – è la suprema sofisticazione”). 

Pensare per risultati ti costringe a verificare che le tue azioni producano effettivamente un outcome (se non lo fanno, non perdere tempo!), ad accogliere il dubbio che gli output che hai individuato possano non essere tanto efficaci quanto le tue aspettative, a validare se stai davvero creando valore per qualcuno.

In sostanza se lavori per risultati non puoi fare a meno di un compagno di viaggio: gli esperimenti

Quando cominci a combinare il raggiungimento dei risultati con un processo basato sull’esecuzione di esperimenti, sblocchi la reale potenza degli approcci agili.

I progetti diventano a quel punto una serie di ipotesi ed esperimenti creati per raggiungere un risultato. Il tuo responsabile potrà non essere del tutto a suo agio quando gli viene ribadito il rischio insito in ogni progetto, ma a sua volta sa perfettamente che solo una percentuale minoritaria delle iniziative ha successo (… e se fa finta di non saperlo è meglio perderlo che trovarlo).

Lavorare in questo modo – come ho già raccontato in questo post – richiede più impegno ma è estremamente più motivante per le persone.

Quindi fate brainstorming su quali azioni hanno più chances di avvicinarvi al risultato atteso, prioritizzate le vostre migliori ipotesi e poi sperimentate, sperimentate, sperimentate. Diventerete sempre più bravi ad anticipare quali output sono più efficaci per raggiungere un certo outcome e a scartare un sacco di idee (sulla base dei learnings che avete accumulato nel tempo).

Riconoscere output, outcome e impatti

Vi sembra più chiara la differenza ora tra i 3 concetti?
Pensate di essere in grado di distinguerli?
Proviamo a fare qualche esempio e vediamo che ne pensate… si tratta di outcome o impatti? 

  • Creare e promuovere cibi gustosi, salutari e biologici
  • Aiutare a dare vita ai progetti creativi
  • Diventare il leader riconosciuto nella produzione di vini rosé
  • Migliorare l’accessibilità del nostro sito web
  • Sconfiggere la malaria
  • Scalare il monte Everest

Un suggerimento: ricordate che gli impatti sono di grossa portata e hanno al centro gli altri.

Scrivete nei commenti le vostre risposte o i vostri dubbi e li approfondiremo assieme. Aiuto tutti i giorni le aziende a definire i loro obiettivi e sarò felice di fare chiarezza con voi se ancora avete qualche perplessità a riguardo.

Infine se volete approfondire ulteriormente c’è un corso gratis su Coursera che può fare al caso vostro: argomento? OKR

… e su questi ultimi tornerò a breve.

Business Model Canvas e innovazione: il caso Netflix

Avete mai utilizzato il Business Model Canvas? Lo strumento che consente di mappare, analizzare e progettare nuovi modelli di business? Ne avevo già parlato tempo fa (qui il post).
Si tratta di un modello ideato da Alexander Osterwalder nel 2004 e pubblicato nel 2010 nel libro Business Model Generation che ha rivoluzionato il modo di rappresentare i business model.

Cos’è il Business Model Canvas

E’ uno strumento strategico – ne abbiamo già presi in esame altri – utile a sviluppare nuovi modelli di business o a perfezionare quelli esistenti.

Il Business Model Canvas si presenta sotto forma di schema grafico ed è un tool ideale per mappare qualsiasi progetto di business. Ciò che si ottiene è una rappresentazione chiara e schematica delle soluzioni organizzative e strategiche che permettono all’azienda di creare, distribuire e acquisire valore.

E’ un template che offre la possibilità di comprendere elementi complessi del funzionamento di un’intera azienda in modo semplice ed intuitivo attraverso una sola immagine.

I 9 componenti del Business Model Canvas

Secondo Osterwalder il modello di business di ogni azienda può essere descritto tramite l’utilizzo di 9 blocchi:

  • Segmenti di clientela (Customer segments)
    Tutte le persone o le organizzazioni per cui l’azienda crea valore, siano essi utenti o clienti paganti
  • Proposta di valore (Value proposition)
    È l’insieme di prodotti e servizi che crea valore per i clienti, la risposta alla domanda “perché i tuoi clienti dovrebbero scegliere la tua soluzione?”
  • Canali (Channels)
    Sono tutti i punti di contatto tra l’azienda e i suoi clienti
  • Relazioni con la clientela (Customers relationship)
    Sono le modalità attraverso cui l’impresa acquisisce clienti, li fidelizza e fa crescere le vendite
  • Flussi di ricavi (Revenue stream)
    Descrive in che modo e con quale pricing il tuo business model genera valore vendendo prodotti o servizi ai vari segmenti di clientela
  • Risorse chiave (Key resources)
    Sono gli asset strategici di cui un’azienda deve disporre per sostenere il proprio modello di business
  • Attività chiave (Key activities)
    Descrivono le attività che l’azienda deve fare per creare e sostenere la value proposition
  • Partner chiave (Key partnership)
    I fornitori e i partner necessari per far funzionare e fare leva sul tuo business model
  • Struttura dei costi (Cost structure)
    Definisce i costi che l’azienda deve sostenere per far funzionare il proprio modello di business

Scarica il Business Model Canvas

Il Business Model Canvas in azione: Netflix

Per farvi vedere come funziona ho preso un esempio.
Ma che c’entra Il Business Model Canvas con Netflix? C’entra c’entra.

Facciamo una prova dal vivo: proviamo a ricostruire la storia di Netflix usando questo strumento.

La storia di Netflix

La storia di Netflix parte nel 1997.
Era una piccola azienda di noleggio DVD che ha scelto di distribuire i video tramite posta.
Il catalogo dei film era online, il cliente faceva la selezione e nel giro di 2-3 giorni riceveva i DVD per posta (fisica, non elettronica).

La prima innovazione che ha portato è stata quindi nel canale: ai tempi se volevi noleggiare un DVD dovevi fisicamente recarti nello store (Blockbuster).

La seconda innovazione – molto più interessante per l’utente finale – è stata fatta sulla revenue stream: a differenza dei competitor Netflix non faceva pagare il singolo noleggio bensì ha deciso di testare un abbonamento mensile a 9,99$ che consentiva di prendere DVD a volontà.

Nel 1999 si presentava così ai clienti: “no due dates, no late fees, unlimited rentals” (è il primo pay off di Netflix).

Questo cambiamento ha prodotto in realtà un altro valore per gli utenti finali: evitare di pagare multe per le restituzioni in ritardo. La leggenda vuole che lo stesso Reed Hastings abbia pagato una late fee di 40$ una volta e da quel momento abbia deciso di risolvere il problema… fondando un’azienda. Chissà se è vero!

Gli anni passano, anche Netflix viene colpita dalla bolla speculativa nel 2000 trovandosi a dover mandare a casa due terzi dei dipendenti ma già nel 2002 il numero di abbonamenti torna a crescere significativamente e la società diventa pubblica.

Nel 2004 BlockBuster si accorge che c’è un competitor sul mercato e a quel punto copia l’idea dell’abbonamento abbassandone il prezzo (a 8,99$) ma dimentica di fare leva a sua volta sul canale più importante che ha a disposizione: i negozi di prossimità.
Questi ultimi avrebbero consentito di spedire i DVD con tempi di consegna inferiori ma il colosso dell’home video non sceglie questa strada.
Decide tardi di eliminare le late fees e perde un bel pezzo delle sue fonti di ricavo.
Nonostante questo nel 2007 BlockBuster cresceva ancora erodendo quote di Netflix e un nuovo competitor si affacciava sul mercato: Walmart.

Walmart adotta un’altra strategia ancora: noleggia i video a prezzi bassissimi pur di attirare gente nei propri store. E’ il cosiddetto low leader pricing model. Le revenue da DVD verranno compensate da altri tipi di acquisti.

Ed è sempre nel 2007 che Netflix va in streaming e diventa da lineare a on demand TV. Ancora una volta è un pioniere di Internet e innova sul canale per consentire una fruizione immediata in tempo reale. Altra value proposition per il cliente!
L’infrastruttura tecnologica delle rete non è del tutto pronta ma Hastings e soci scommettono su di essa.
L’investimento tecnologico è ingente così come quello in data analytics: nasce l’algoritmo di raccomandazione che consente ai fruitori di trovare contenuti di loro gradimento.

C’è un altro valore che viene creato per il cliente: le serie tv sono rilasciate in una botta sola, intere, così il fruitore non deve aspettare settimane per scoprire come evolve la storia… benvenuti nell’era del binge watching! E nessuno osi dire che non è valore questo…

Ma questo non basta. Netflix sa che la vera battaglia sulle piattaforme si gioca a livello dei contenuti e che la sua crescita non tarderà a “infastidire” le grosse case di produzione e a far crescere il costo delle licenze. Per questo motivo innova ancora questa volta nelle attività chiave cominciando a produrre contenuti per conto proprio.
E’ il 2013 quando Netflix lancia House of Cards.
E investe tanto in questo stream: parliamo di produzioni localizzate, sempre più di qualità e sempre più frequenti (dichiara di voler lanciare un nuovo film a settimana).

I dati aiutano in questo: Netflix ha moltissime informazioni su ciò che piace alla gente e li usa in maniera intensiva per prendere decisioni sui contenuti da produrre e per confrontare le visualizzazioni di contenuto con il costo dei progetti. E’ una tech company che lavora nel mercato dell’entertainment.

Come previsto le altre grandi case di produzione – Disney e HBO in primis – decidono di lanciare i loro contenuti su piattaforme proprietarie togliendole da Netflix.
E un altro competitor – in maniera simile a quanto successo con Walmart nel 2007 – si fa avanti: è Amazon Prime che punta nuovamente sul loss leader principle per attrarre i clienti con prezzi bassissimi. Del resto Bezos non è interessato a fare i soldi con i contenuti video ma a trattenere i clienti nella sottoscrizione Prime (con cui acquistano un tot di altre cose).

Ce la farà Netflix a trovare un altro punto di svolta, un’ennesima innovazione? Oggi sono molti ad avere dei dubbi a riguardo.


Staremo a vedere come cambierà di nuovo il suo Business Model Canvas; certamente ha tutte le capacità per provarci. Non a caso è entrata negli annali della borsa con il suo ritorno sul mercato del 10.000% dal 2007 al 2018.
Avete letto bene 10.000%.
Se avessimo investito anche solo 100$ …

Continuous Discovery: metti una sera un webinar con Teresa Torres

Conoscete Teresa Torres? Per me Teresa è un mito!
Si definisce una Product Discovery Coach, è autrice di “Continuous Discovery Habits” e del blog producttalk.org.
Il suo lavoro è aiutare i team in aziende di tutte le dimensioni a prendere buone decisioni su cosa sviluppare rendendo le best practices sempre più semplici.

Martedì 1 febbraio Teresa ha tenuto un webinar dal titolo “The What & Why Of Continuous Discovery”. Potevo mancare a quest’occasione? No! Insieme a me c’erano più di 1000 persone registrate all’evento e collegate da tutto il mondo per capire come fare a calare questa pratica nella quotidianità della propria organizzazione.

Che cos’è la Product Discovery

Discovery = deciding what to build; Delivery = building it

La Product Discovery è un insieme di attività per capire che cosa ha senso sviluppare, mentre con delivery intendiamo lo sviluppo vero e proprio.
Alcune delle pratiche utilizzate nella fase di discovery sono ad esempio le interviste ai clienti, la definizione delle personas e dei jobs to be done, le customer journeys, le sessioni di brainstorming e co-design.

Discovery e delivery non sono attività separate o fasi distinte nel processo di creazione del prodotto perché la linea di demarcazione tra le due tende a sparire.
Secondo la Torres sono entrambe importanti nonostante molte aziende tendono a sottovalutare la prima.
Il suo invito è di approcciare la discovery mettendo l’accento sulla continuità di questa attività. Non si tratta di un progetto con una deadline temporale, bensì di una pratica sempre in corso nel team.

Quando fare Product Discovery

La best practice definita dalla Torres consiste in touchpoint settimanali del team che sviluppa il prodotto digitale con i clienti o potenziali clienti allo scopo di apprendere il “desired product outcome”, ovvero il valore dal loro punto di vista.

Attenzione quindi perché la discovery non è un’attività relegata esclusivamente alla fase iniziale del ciclo di vita del prodotto o al momento in cui si è alla ricerca del product – market fit.
La cadenza continua di questa attività anche in una fase matura del prodotto stesso consente di raggiungere un miglioramento continuo.
Del resto i prodotti digitali non sono mai finiti; è sempre possibile ottimizzarli finché sono in vita e per fare ciò è fondamentale includere i clienti nel processo, co-creare con loro.

Ma da dove si comincia se la Product Discovery è una pratica di cui nessuno ha mai sentito parlare in azienda? Come si fa a raggiungere quei livelli?
Come sempre partiamo da dove siamo.
Se non avete mai parlato direttamente con un cliente alzate il telefono e fissate questo primo incontro. Se le chiacchiere che fate sono solo sporadiche potreste cominciare a mettere in agenda un appuntamento fisso mensile, e così via.
La cosa importante è puntare al miglioramento continuo e progredire passo a passo con l’obiettivo di arrivare a una cadenza settimanale di incontri.

Ricordate: state allenando i muscoli della cooperazione e un nuovo approccio al design!

Chi partecipa alla Product Discovery

Pensate che la Discovery sia di dominio esclusivo del Product Owner? Non è così.
Il minimo sindacale per portare avanti questa attività richiede la coesistenza di 3 figure: il product owner, il designer e il team leader, il cosiddetto “Product Trio”.
Questo è il minimo delle persone da coinvolgere ma se più persone del team volessero partecipare ben venga!
L’importante è lavorare assieme, portare avanti le interviste in coppia o in trio in modo tale da condividere più punti di vista.

Non esiste un hand-off tra le 3 figure.
Vogliamo davvero tornare ai tempi in cui il prodotto passava le specifiche al reparto creativo e questo passava i template allo sviluppo senza un minimo di interazione? Il risultato è sempre stata una perdita di fedeltà con l’idea iniziale del cliente e – più spesso del previsto – la creazione di una soluzione sbagliata.
Ecco perché oggi includiamo tutti – ingegneri compresi – nelle decisioni su cosa andare a sviluppare.

Scopo della Discovery

La Discovery portata avanti dal product trio ci consente di definire l’impatto che vogliamo ottenere con il nostro prodotto digitale, non la lista di funzionalità che andremo a sviluppare (ricordate la la differenza tra output e outcome?).
I cambiamenti sono costanti nel mercato, emergono continuamente nuove tecnologie e nuovi competitor; le nostre stesse release di prodotto hanno un effetto che porta a nuove richieste.

L’obiettivo della Product Discovery è identificare nuove opportunità, prioritizzarle e ideare soluzioni che indirizzino le più promettenti.
Teresa ci ricorda che è fondamentale non buttarsi sulla prima soluzione che ci è venuta in mente perché potremmo essere influenzati da tanti bias.
Le opportunità vanno messe a confronto tra loro.
Se volete capire meglio come effettuare questa selezione vi consiglio di prendere in considerazione quello che lei ha da dire sul tema opportunity tree (su cui tornerò anch’io a breve…):