Il potere di dire no

Quando un Product Owner può definirsi veramente tale?

Pichler sostiene ci sia un test semplicissimo per capire se una persona sta ricoprendo davvero il ruolo di Product Owner.
Basta porre la fatidica domanda “Hai il diritto di dire no?

Quando dire NO
Ci troviamo a dire no in tante diverse situazioni.
Non si tratta di un’attitudine negativa nei confronti del mondo o del lavoro da fare. 
Ci sono occasioni in cui i no fanno la differenza tra il successo ed il fallimento di un progetto.

Diciamo no quando una richiesta non è allineata con gli obiettivi che stiamo perseguendo, diciamo no quando un desiderata non porta reale beneficio all’utente o quando il valore di una richiesta non è in alcun modo misurabile o testabile.

Diciamo no quando i desiderata vengono dalla pancia ma non sono argomentati né analizzati alla luce di dati reali.

Soprattutto diciamo no quando ciò che ci viene richiesto non è indispensabile per l’esito positivo del progetto. Perché tutti noi combattiamo con risorse scarse (siano esse tempi, costi o persone) ed il nostro primo pensiero è rimanere focalizzati su ciò che è davvero essenziale per la riuscita di un prodotto o un servizio escludendo ciò che è “rumore di fondo”.
Più funzionalità difficilmente sono sinonimo di prodotto migliore, se mai più complesso…

Dire NO è un esercizio difficile
Diciamocelo: il Product Owner non è un mestiere per cuori teneri o per persone alla ricerca di conferme…
Non è mai bello dire di no e “fare la parte del cattivo”, ma se non siamo in grado di farlo perché per indole vogliamo compiacere i nostri interlocutori questo ruolo non fa per noi.

Ovviamente riuscire a dire no nel modo giusto richiede pratica e dedizione. C’è modo e modo di farlo!
Dobbiamo riuscire a far comprendere che l’accettazione o il rifiuto di un desiderata non è mai una questione personale, bensì una scelta ragionata per la soddisfazione dei nostri utenti.
Siamo disponibili ad ascoltare tutte le richieste, ne analizziamo la portata e il contesto però quando si rivelano incoerenti con la strategia o la roadmap gentilmente e con fermezza diciamo no argomentandone le motivazioni.

Quando dire NO è ancora più complicato
Come si suol dire “qui casca l’asino”…
Diciamo che avete raggiunto un buon grado di confidenza nel vestire i panni del Product Owner ed avete instaurato un rapporto di fiducia con il team e lo Scrum Master.
Avete anche gentilmente rimandato al mittente alcune richieste minori provenienti dagli utenti o da colleghi della vostra stessa azienda.
Che succede però quando le richieste arrivano dall’alto?
Siete in grado di dire no anche all’amministratore delegato? Al direttore vendite? In generale a tutti quegli stakeholder che potrebbero influire sulla qualità della vostra vita professionale?

Anche in questo caso se il desiderata è campato in aria, non ha alcuna attinenza con quanto state facendo o pensate possa essere addirittura controproducente dovreste dire no.
Più facile a dirsi che a farsi, lo so.
Ma vi invito quantomeno a non arrendervi a priori. Chiedete, fate domande e argomentate la vostra posizione. Potreste scoprire di non avere elementi validi per ribattere o di non avere tutte le informazioni chiave per prendere una decisione… oppure potreste fare breccia nelle idee del capo grazie ai vostri dati alla mano.
In ogni caso vale la pena tentare e ritentare.

Quando manca la delega
Infine, un punto dolente in molte realtà lavorative (quantomeno – nella mia modestissima esperienza – in quelle italiane).
C’è una situazione peggiore rispetto a quella di non sapere o non potere dire no.
E’ quando il no o il sì del Product Owner contano poco nulla.
Se non c’è sponsorship da parte del management, se le decisioni del PO vengono regolarmente contraddette da persone “più alte in grado”, se non vengono condivise le informazioni utili per decidere, se non si ha insomma “licenza di uccidere” (si fa per dire…), non ci sono le condizioni di contesto che consentono di fare veramente Scrum.

Non c’è niente di peggio di un Product Owner ridotto a fare il portavoce o il segretario. Non serve al team, non serve al cliente finale e – di fatto – neanche a se stesso.
Anche in questo caso è meglio portare alla luce con i propri interlocutori il tema della fiducia e della mancata delega per provare a capire quali azioni correttive possono essere messe in campo.

In sintesi…
E’ importante che il Product Owner abbia la libertà ed il diritto di dire dei no motivati al cliente finale, al cliente interno e al proprio management.
Senza questo potere non è posto nelle condizioni di fare al meglio il suo lavoro e di selezionare con cura ciò che è di maggior valore per gli utenti eliminando tutto ciò che è spreco.

10 criteri per suddividere le user stories

Quando singole user stories richiedono un effort di sviluppo che eccede la settimana o, più in generale, quando il team considera le storie troppo grandi per essere lavorate in un colpo solo è necessario riconsiderarle e suddividerle in parti più piccole.

E’ una condizione che capita di continuo ed il Product Owner deve essere allenato ad individuare ragionevoli alternative.
Ma è sempre possibile suddividere una funzionalità?
Sì, non solo è possibile, spesso è addirittura conveniente.
Storie più piccole hanno di solito stime più accurate, sono più gestibili, meno rischiose e offrono al Product Owner il vantaggio di una maggiore flessibilità nella gestione delle priorità.

Vediamo quali possono essere i criteri per dividere le user stories. Ve ne propongo dieci – quelli utilizzati più di frequente – ma è certamente possibile individuarne molti altri adatti alle esigenze di ciascuno (qui ne trovate una mappa mentale).
L’importante è evitare la trappola di suddividere le storie in base ai singoli task necessari per implementarle (i task non sono di alcun valore per l’utente finale!).

Dividere in base al tipo di dati

Questo criterio può risultare particolarmente utile quando si sta implementando una funzionalità di ricerca o nella gestione dei form.
Potremmo infatti individuare dei parametri base di ricerca ed una serie di criteri aggiuntivi o di filtri avanzati che possono essere rilasciati in un secondo momento.
Nella raccolta di dati mediante form possiamo decidere di gestire subito un primo set di informazioni (ad esempio quelle strettamente necessarie al nostro servizio) e abilitare dopo campi accessori e facoltativi. Questa soluzione ha anche il vantaggio di consentire una gestione incrementale delle condizioni di errore.

Dividere in base alle operazioni

In questo caso non ci concentriamo sui dati da gestire ma sul tipo di operazioni che è possibile effettuare sui dati.
L’esempio più classico è il “CRUD” (acronimo di create, read, update, delete), ovvero le operazioni di creazione, lettura, aggiornamento e cancellazione.
Il team di sviluppo può valutare che nel corso di una iterazione sarà in grado di realizzare solo parte del lavoro, ad esempio creare nuovi account per un servizio, associarli ad informazioni di dettaglio e consentirne la consultazione in lettura.
In un’iterazione successiva sarà possibile gestire operazioni di modifica ed eliminazione dei dati.

Dividere in base agli step di processo

Se gestite dei servizi avete inevitabilmente a che fare con processi e workflow.
Un criterio che può rivelarsi utile in questo scenario è segmentare i processi nei singoli step che li compongono.
Prendiamo ad esempio la registrazione di un account. Iniziate a sviluppare il form di raccolta dei dati, poi la visualizzazione in anteprima delle informazioni immesse e infine la pagina di conferma dell’avvenuta registrazione.
E’ ovvio che deciderete di rilasciare al pubblico quando la funzionalità di registrazione sarà del tutto completa, ma mediante un test interno potreste ad esempio scoprire eventuali problemi nella raccolta dei dati ed eliminare delle vulnerabilità prima del roll-out agli utenti finali.

Dividere in base ai flussi di processo

Sempre in tema di processi ed interazioni può tornare utile la decisione di separare “il migliore dei casi possibili” (l’happy path, la versione più semplice) da tutti i flussi in cui qualcosa va storto.
Gestiamo il caso ottimale e poi ci occupiamo di tutte le eccezioni.
Per tornare all’esempio della registrazione implementiamo il caso in cui l’utente non effettua alcun errore in tutto il processo e non ha necessità di modificare i dati inseriti. Creiamo poi ulteriori user stories per gestire i possibili errori e cambi di programma del nostro utente.

Dividere in base al tipo di utente

La stessa funzionalità potrebbe essere utilizzata da tipologie di utenti molto diverse tra loro (ad esempio utente basic, avanzato, utente interno, fornitore, operatore di call center, ecc.).
Ognuno dei nostri interlocutori è guidato da bisogni specifici. Concentriamoci in prima battuta sull’utilizzatore principale ed implementiamo la funzionalità in maniera ottimale per questo soggetto, dopo ci occuperemo degli attori secondari.
Se fate uso di personas vi torneranno molto utili per individuare i bisogni fondamentali che deve soddisfare la funzionalità in oggetto.

Dividere in base alla piattaforma

Nel mondo digitale è sempre più frequente che un servizio sia multi-channel.
Se la medesima funzionalità deve essere portata su tutti i canali si può pensare ad un rilascio incrementale sulla varie piattaforme (separare la parte web, dal sito mobile, da eventuali APP mobile).
E ancora, se abbiamo a che fare con e-commerce e affini, possiamo decidere di implementare diversi metodi di pagamento (carta di credito VISA, AMEX, Mastercard, Pay Pal, ecc.) in più step.
La prima storia sarà la più onerosa in termini di effort, le successive saranno più semplici in quanto variazioni  sul tema.

Dividere in base al tipo di requisiti (funzionali e non)

Se l’ambito in cui lavoriamo prevede un’interazione con gli utenti (e quale servizio non prevede oggi un front-end?) dobbiamo per forza curare i requisiti non funzionali.
Ricadono tra questi gli aspetti di performance, scalabilità, usabilità, layout, ecc.
Di solito in questi casi si decide di lavorare prima l’essenza di una funzionalità (il suo aspetto core) e, solo in un secondo momento, i requisiti non funzionali.
Il motto è “make it work, then make it faster”. Prima mettiamo in piedi il motore e verifichiamo che sia effettivamente funzionante, poi lo ottimizziamo con un approccio incrementale e lo vestiamo.

Dividere in base alle priorità

La medesima funzionalità può rispondere ad esigenze di natura diversa (e diversa priorità).
In questo caso tentiamo di suddividere questa funzionalità in user stories più piccole individuando cosa è un must per il rilascio e cosa è un attributo secondario.
Vi ricordate l’approccio 80/20? E’ una tecnica applicabile non solo al backlog ma, il più delle volte, anche a singole user stories.
In generale se vediamo che la medesima storia soddisfa più bisogni di priorità diversa è una buona idea frammentarla ulteriormente.

Dividere in base ai criteri di accettazione

Quando una storia è associata ad un numero consistente di criteri di accettazione è molto probabile che la sua dimensione in termini di effort sia elevata… fosse solo per i test che devono verificarne l’effettivo funzionamento.
In questi casi di solito sollevo la questione con il team: siamo in grado di rispettare tutti i criteri in una volta sola (un unico sprint)? O è più ragionevole pensare di soddisfarne una parte e demandare il resto ad iterazioni successive?

Dividere in base al rischio

Può capitare che il team debba lavorare su ambiti poco conosciuti, con tecnologie nuove o integrando pezzi di terze parti.
In questi casi anche la stima dell’effort può risultare ardua.
Quando non si hanno le idee chiare torna utile suddividere la storia in una prima parte di analisi ed una successiva fase di implementazione. In questo modo prima si acquisiscono le conoscenze necessarie per definire meglio il contesto e le possibili soluzioni con una spike e solo poi si parte a scrivere codice.

E voi? Quali criteri utilizzate più di frequente?
Quali preferite?
Quali altri avete sperimentato?

Un’idea di valore condivisa

Uno degli obiettivi primari del Product Owner è creare valore per l’utente finale e, allo stesso tempo, per la propria azienda.
Lo scopo del nostro lavoro è realizzare prodotti che rispondano ai reali bisogni degli utenti, renderli soddisfatti così da garantire all’azienda uno sviluppo sostenibile ed il raggiungimento degli obiettivi di business. Tuttavia il termine “valore” può essere interpretato in molti modi o, peggio, può non essere affatto chiaro a cosa corrisponda.

Valore per chi

Si parla tanto di valore, ma pochi si prendono il tempo di riflettere su cosa realmente sia.
Cominciamo a chiederci qual è il punto di vista che intendiamo assumere.
Il “valore” potrebbe avere un significato differente per il cliente finale, l’azienda per la quale lavoriamo, eventuali finanziatori o, ad esempio, i business partner.
Identifichiamo quali sono gli attori in campo – i cosiddetti stakeholders – e cerchiamo di definire cos’è valore per ognuno di essi. In molti casi la definizione potrebbe collimare, in altri potremmo trovarci di fronte a delle sorprese.

Valore = soldi?

La risposta può sembrare scontata, anzi spesso e volentieri lo è.
Ma stiamo davvero esaurendo l’argomento valore con l’aumento dei ricavi e la riduzione dei costi?
Vi invito a prendere il tempo che serve per analizzare più a fondo la questione.
Prendiamo il caso di un’azienda. Dobbiamo sforzarci di contestualizzare il significato di valore in riferimento al tipo di business, allo scenario di mercato, al contesto competitivo, alla maturità del settore, ecc.

Valori diversi

Facciamo qualche esempio…
Un’azienda no profit potrebbe considerare “valore” il fatto di produrre un impatto sociale positivo in un determinato ambito.
Una startup con buoni capitali alle spalle potrebbe concentrare i propri sforzi nella soddisfazione dei propri utenti chiudendo inizialmente un occhio sui ricavi.
Per un ente di ricerca il valore più rilevante è l’acquisizione di conoscenza in nuovi domini.
Ciò che intendo dire è che il guadagno potrebbe non essere l’unica dimensione rilevante anche in un contesto privato.

Valore: un significato condiviso

E’ importante che all’interno dell’azienda ci sia un’idea chiara di cosa è valore per l’azienda stessa e per il cliente finale.
Se è presente una vision può essere un ottimo punto di partenza per declinare l’idea di valore o le idee di valore.
Quando costruiamo un significato condiviso creiamo allineamento di intenti, facciamo sì che le persone abbiano piena consapevolezza degli obiettivi e possano prendere in autonomia decisioni coerenti con i criteri di valore.

Valore nel tempo

Una volta identificato cos’è il valore non sediamoci sugli allori!
Ciò che consideriamo oggi un valore primario potrebbe non avere la medesima importanza in futuro.
In fase di crescita potremmo considerare valore l’acquisizione di conoscenza sul mercato e sui potenziali utenti, la riduzione del rischio d’ingresso da parte di potenziali competitor o l’aumento della customer base.
In una fase più matura l’azienda focalizza di norma i propri sforzi sulla monetizzazione… e quindi da più peso alla dimensione economica del valore.

E voi?
Cos’è per voi valore?