Pensare per risultati: le differenze tra output, outcome e impatto

Torno su un tema che ho già trattato e che mi è particolarmente caro – la differenza tra output e outcome – aggiungendo un bit in più, ovvero il concetto di impatto.

Perché riproporre questo argomento? Semplicemente perché occupandomi tra le altre cose di formazione sui temi dell’Agile e del product management continuo a vedere persone che inizialmente fanno davvero fatica a capire le differenze.

Diciamocelo… siamo molto più abituati a pensare per azioni che per risultati.
La cultura del fare nel bel paese e altrove sembra essere ancora dominante rispetto all’idea di “fare le cose giuste”.

Il punto è che io posso mettere in campo un sacco di attività – ad esempio – per portare più traffico sul mio sito ma alla fine non tutte le iniziative si riveleranno produttive: alcune lo saranno più di altre, alcune non lo saranno affatto, poche faranno veramente la differenza e sposteranno i numeri dell’acquisition.

Prendiamoci allora il tempo di capire bene questi concetti e di non ricadere nell’approccio del fare tanto per fare.
Andy Grove – CEO di Intel per tanti anni e padre degli OKR – già negli anni ‘70 diceva

“Ci sono così tante persone che lavorano duro e ottengono così poco”.

Quanto spreco! Possiamo tutti imparare a fare meno e a scegliere quelle attività che possono davvero spostare l’ago della bilancia.

Definizione di output, outcome e impatto

Output

Partiamo dalla cosa più semplice: l’output è un’attività, un’azione che facciamo per raggiungere un determinato obiettivo.
Difficilmente ci confondiamo su questo concetto perché gli output sono tangibili, sono qualcosa che possiamo vedere / toccare / esperire e quindi è molto facile capire se una determinata cosa è stata fatta oppure no (es. la presentazione che il tuo responsabile ti ha chiesto, l’aggiunta di filtri avanzati di ricerca sul sito, l’avvio della campagna marketing per un cliente retail, ecc.).
L’output c’è o non c’è, quali risultati produca è tutta un’altra storia.

Outcome

Joshua Seiden nel suo libro “Outcomes Over Outputs” definisce l’outcome come “un cambiamento nel comportamento umano che guida i risultati aziendali.” 

L’outcome è il risultato che le azioni che fai producono; si tratta di cambiamenti nel comportamento di clienti, utenti e dipendenti che portano cose positive (si spera!) per la tua azienda, la tua organizzazione o chiunque sia al centro del tuo lavoro.

I risultati non sono direttamente correlati con la creazione di funzionalità, anche se a volte arrivano creando le cose giuste. Idealmente – sottolinea l’autore – si verificano quando hai creato il minor numero possibile di funzionalità.

Fare cose insomma non significa necessariamente fare progressi verso un determinato obiettivo. Se la presentazione che hai prodotto non sblocca il budget per perseguire il nuovo progetto R&D, se l’aggiunta di filtri avanzati non riduce i tempi di ricerca con risultati sul sito, se la campagna marketing non genera traffico il tuo output non ha prodotto alcun outcome (e – fidatevi – questa situazione è estremamente comune se consideriamo la statistica che il x% delle funzionalità non cambia…).

L’outcome ha a che fare con il valore generato per i nostri interlocutori.

Impatto

Alcuni utilizzano outcome e impatto in maniera intercambiabile… non è del tutto sbagliato; dal mio punto di vista dipende dal contesto.
Se penso ad esempio ad uno strumento come la Impact Map l’impatto è proprio definito come una modifica del comportamento negli attori del sistema, in altri casi l’impatto è considerato un cambiamento che avviene su una scala più grande (pensate all’impatto sociale o organizzativo). In questa seconda accezione l’impatto è un cambiamento di portata maggiore, che interessa gruppi di individui, organizzazioni o intere società (in molti casi potrebbe essere definito ad esempio nella mission di un’azienda).

W.K. Kellogg Foundation
Logic Model Development Guide

Ciò che non mi convince del tutto in questo modello è proprio la collocazione dell’output all’interno dei risultati attesi… l’output non è affatto un risultato bensì la nostra migliore scommessa su ciò che c’è dev’essere fatto per raggiungere un certo risultato. 

Esempio del Logic Model

Perché pensare per risultati fa la differenza…

Capite perché l’enfasi sui risultati innesca un cambio culturale? 
L’accento sul “fare cose” è un’eredità di un’epoca in cui producevamo principalmente beni fisici e la sfida principale era fare bene le cose. Oggi viviamo in un mondo molto più digitale e immateriale dove l’attenzione si sposta dai beni fisici ai servizi e alle esperienze nel loro complesso, un contesto in cui per lo più meno è meglio (“la semplicità – diceva Leonardo – è la suprema sofisticazione”). 

Pensare per risultati ti costringe a verificare che le tue azioni producano effettivamente un outcome (se non lo fanno, non perdere tempo!), ad accogliere il dubbio che gli output che hai individuato possano non essere tanto efficaci quanto le tue aspettative, a validare se stai davvero creando valore per qualcuno.

In sostanza se lavori per risultati non puoi fare a meno di un compagno di viaggio: gli esperimenti

Quando cominci a combinare il raggiungimento dei risultati con un processo basato sull’esecuzione di esperimenti, sblocchi la reale potenza degli approcci agili.

I progetti diventano a quel punto una serie di ipotesi ed esperimenti creati per raggiungere un risultato. Il tuo responsabile potrà non essere del tutto a suo agio quando gli viene ribadito il rischio insito in ogni progetto, ma a sua volta sa perfettamente che solo una percentuale minoritaria delle iniziative ha successo (… e se fa finta di non saperlo è meglio perderlo che trovarlo).

Lavorare in questo modo – come ho già raccontato in questo post – richiede più impegno ma è estremamente più motivante per le persone.

Quindi fate brainstorming su quali azioni hanno più chances di avvicinarvi al risultato atteso, prioritizzate le vostre migliori ipotesi e poi sperimentate, sperimentate, sperimentate. Diventerete sempre più bravi ad anticipare quali output sono più efficaci per raggiungere un certo outcome e a scartare un sacco di idee (sulla base dei learnings che avete accumulato nel tempo).

Riconoscere output, outcome e impatti

Vi sembra più chiara la differenza ora tra i 3 concetti?
Pensate di essere in grado di distinguerli?
Proviamo a fare qualche esempio e vediamo che ne pensate… si tratta di outcome o impatti? 

  • Creare e promuovere cibi gustosi, salutari e biologici
  • Aiutare a dare vita ai progetti creativi
  • Diventare il leader riconosciuto nella produzione di vini rosé
  • Migliorare l’accessibilità del nostro sito web
  • Sconfiggere la malaria
  • Scalare il monte Everest

Un suggerimento: ricordate che gli impatti sono di grossa portata e hanno al centro gli altri.

Scrivete nei commenti le vostre risposte o i vostri dubbi e li approfondiremo assieme. Aiuto tutti i giorni le aziende a definire i loro obiettivi e sarò felice di fare chiarezza con voi se ancora avete qualche perplessità a riguardo.

Infine se volete approfondire ulteriormente c’è un corso gratis su Coursera che può fare al caso vostro: argomento? OKR

… e su questi ultimi tornerò a breve.

Pensare e testare il prodotto – intervento all’Agile Experience Conference

Recentemente ho preso parte all’Agile Experience Conference organizzata dagli amici di Agile for Italy. Si tratta di incontri live caratterizzati da un taglio pratico e dalla formula intervento iniziale più intervista da parte dei peer.
Giovedì 18 febbraio ho parlato di come “Pensare e testare il prodotto” in compagnia di Roberto Lunazzi, Lorenzo Cassulo e Deborah Ghisolfi.
Abbiamo approfondito quali tecniche usare per creare un prodotto amato dai nostri clienti, quali metriche e quali difficoltà si incontrano.

Qui trovate la registrazione:

Ed ecco a voi una traccia del mio intervento.

Le precondizioni di un buon progetto

Dobbiamo fare una premessa prima di affrontare il momento della discovery di prodotto.
E’ necessario fare un setting quando affrontate progetti di questo tipo per comprendere:

  • chi saranno gli interlocutori (il cliente finale, l’acquirente, lo sponsor in azienda, il responsabile della decisioni finale e chi può influenzare il progetto).
    E’ fondamentale riuscire a mappare tutti questi attori per partire con il piede giusto;
  • qual è esattamente l’obiettivo.
    Quando si fanno attività di questo tipo c’è sempre un’aspettativa da parte dell’azienda, che siano obiettivi di ricavi, quote di mercato piuttosto o volumi di vendita.
    È opportuno fare tante domande prima di iniziare e capire bene quali sono le regole del gioco perché gli obiettivi si possono portare a casa in molti modi e noi dobbiamo capire quali sono i trade-off percorribili.

Prima di tutto vi voglio proporre una distinzione tra prodotti totalmente nuovi e prodotti esistenti che devono essere fatti evolvere, ottimizzati, ecc.
Perché questo? Perché nei due casi abbiamo a disposizione strumenti diversi.

Creare prodotti, ma di che tipo?

Nuovi prodotti

Stiamo parlando di una situazione in cui non abbiamo dati a disposizione di prima mano.
Il prodotto non è presente in azienda; stiamo creando qualcosa di nuovo con cui non ci siamo ancora confrontati.

Cosa faccio di solito io?

Analisi

Faccio un’analisi: cerco gli stessi prodotti o soluzioni simili sul mercato e li studio (se posso li utilizzo direttamente, altrimenti cerco qualcuno che ne abbia esperienza, cerco materiale online, help o video, commenti, ratings).
Queste sono tutte informazioni utili per cominciare a farmi un’idea di questa tipologia di prodotti:
– come sono fatti
– che caratteristiche hanno
– quali sono i loro punti di forza
– eventuali punti deboli.

Personas

L’altro passo che faccio immediatamente è andare a capire chi sarà il mio pubblico.
Dedico tempo alla costruzione delle personas primarie che coincidono con i miei utilizzatori.
Si dice che i PO sono la voce del cliente in azienda ma se questa voce non la ascoltiamo mai dal vivo non stiamo facendo il nostro lavoro, ci stiamo perdendo una grande opportunità.

Con le personas voglio capire quale sarà il mio segmento di pubblico, non solo da un punto di vista socio-demografico.
Qui ho bisogno di scavare in profondità:
– che tipo di bisogni ha?
– quali preoccupazioni?
– cosa vuole ottenere?
– cosa è importante per queste persone?
– che cosa li motiva e li ispira?

Devo riuscire a costruire un profilo a tutto tondo per potermi mettere nei loro panni e verificare che il nuovo prodotto risponda alle sue necessità.

Impact Mapping

Negli anni uno strumento che mi è venuto molto in aiuto nella creazione di nuovi prodotti è l’impact mapping.
E’ una tecnica di pianificazione strategica che ci aiuta a costruire la mappa mentale del progetto:
– qual è esattamente l’obiettivo che vogliamo ottenere
– quali sono gli attori in gioco (e qui tornano in gioco le personas ma non solo)
– quali sono gli impatti che vogliamo produrre ovvero i cambiamenti nel comportamento degli attori
– quali attività (ovvero funzionalità o caratteristiche del prodotto potrebbero aiutarci ad ottenerli).

Per costruire questa mappa si fanno sessioni collaborative, più persone con diversi ruoli e competenze. Maggiore è la varietà e meglio è.

Sessioni collaborative di discovery

Come dico sempre il prodotto è un gioco di squadra, non è qualcosa che fate chiusi da soli dentro il vostro ufficio. Avete bisogno di un confronto continuo nella fase di discovery.

Ecco perché consiglio di sfruttare il più possibile per la creazione di nuovi prodotti le sessioni collaborative di co-creazione: facciamo brainstorming, ad esempio lift-off di progetto o – se ne avete la possibilità – potete proporre degli innovation days o degli hackathon dove diversi team cross-funzionali elaborano idee, le migliori vengono votate e si può arrivare a generare un prototipo dell’idea.

Tutti questi eventi hanno un enorme vantaggio perché portano le persone a bordo, fanno comprendere la sfida e consentono di generare tantissime idee così da selezionare le migliori.

Migliorare prodotti esistenti

Dati ed esperienze di prima mano

Qui possiamo utilizzare tutto quello che abbiamo detto prima ma abbiamo altre frecce al nostro arco. Esistono già degli utenti del nostro prodotto, abbiamo dati di acquisto e di utilizzo.
Sfruttiamo al massimo questi mezzi!
Andiamo a parlare con acquirenti e utilizzatori, intervistiamoli (i dati quantitativi non vi bastano per capire i fenomeni, dovete capire il perché), guardiamo gli analytics, dati di vendita e utilizzo, le registrazioni di sessioni utente, le domande che arrivano all’assistenza clienti o vengono fatte ai commerciali, sondaggi, analisi della customer journey.

Io di solito parto da interviste interne all’azienda per farmi un’idea dei problemi principali, monitoro l’utilizzo e poi vado a fare interviste qualitative.

Interviste JBTD

Potete utilizzare il framework JBTD con cui cercate di capire a quale scopo serve il prodotto o il servizio, sia da un punto di vista più funzionale (è il cosiddetto lavoro primario), sia da un punto di vista emotivo e sociale (come il prodotto fa sentire il cliente, come viene percepito dagli altri).
Perché sono importanti? Perché se non capiamo sulla base di che cosa un utente sceglie il nostro prodotto, quali sono i suoi parametri principali o creiamo una soluzione che non vuole nessuno (e magari questo problema non l’avete con un restyling o un replatforming) o riempiamo il prodotto di funzionalità inutili che non ne aumentano il valore, bensì lo diminuiscono.

Utilizzando anche solo alcuni di questi strumenti avrete raccolto una marea di informazioni su cosa funziona e cosa no, avrete moltissimi spunti su cosa aggredire per primo e avrete generato un backlog di attività.

Pronti per lo sviluppo? No, testiamo l’idea di business

A me piace l’idea di testare l’idea di business (non stiamo parlando di testare il prodotto finito); stiamo parlando di compiere un giro completo prima ancora di partire con un singola riga di codice.
E’ un approccio che è diventato sempre più mainstream negli ultimi anni. Da Lean Startup in avanti è conosciutissimo.

Experiment Map

Qui ci vengono in aiuto una serie di strumenti: ad esempio potete utilizzare un semplicissimo canvas, quello della experiment map. Identificate quali sono le assunzioni più rischiose che stanno dietro alla vostra soluzione, chiarite il risultato che vorreste ottenere e poi costruite un esperimento (il più semplice e meno costoso possibile) per verificare la vostra idea.
Non serve avere il prodotto finito, basta abbozzarlo!

Minimum Viable Product

Ci rifacciamo al concetto di MVP, Minimum Viable Product, una delle idee più bistrattate e meno comprese.
Quando parlo di MVP mi viene sempre in mente l’esempio di Zappos che nel 1999 ha testato l’assunzione più rischiosa che stava dietro alla sua idea di business con un concierge MVP.
Tenete conto che l’e-commerce non era il fenomeno che è adesso. Il founder doveva capire se le persone sarebbero state disposte a comprare qualcosa online – le scarpe – senza poterlo provare.
Ha costruito un negozio finto, un front-end vetrina senza che ci fossero tutti i processi dietro. Ogni volta che qualcuno cliccava sul pulsante “Compra” andava fisicamente a comprare il paio di scarpe in negozio.

Design Sprint

Negli anni gli strumenti sono diventati sempre più sofisticati: pensate al design sprint inventato da Google Venture. In 5 giorni riducete i rischi del lancio sul mercato di un nuovo prodotto o servizio. Partite dalla definizione del problema, fate brainstorming delle possibili soluzioni, scegliete la più promettente, costruite un prototipo e lo validate con potenziali utenti.
Questo non vi fa solo risparmiare tempo e denaro, vi fa risparmiare la creazione di waste.

Conclusioni

In sintesi abbiamo tanti strumenti a disposizione.
Non esiste lo strumento perfetto o un unico strumento per un problema.
Provateli, testateli e cercate quello che più vi risuona, con cui vi trovate bene.

Ma la cosa importante non sono gli strumenti in sé.
Quando penso alla creazione di un nuovo prodotto per me è determinante l’approccio che è fatto di questi ingredienti principali: ascolto, lavoro di squadra, confronto con la realtà (uscite dagli uffici!), utilizzo di dati e sapere di non sapere.
Tutto è ancora da imparare!

I migliori libri per Product Owner: Lean Startup

Il 2011 per me è stato davvero un anno di svolta.
E’ l’anno in cui ho scoperto l’Agile e ho preso parte ad un primo pilot nella mia azienda di allora (Matrix!). Sarà per questo che sono così legata al libro di Eric Ries?
Lean Startup” è uscito nello stesso anno e per me è stato davvero una rivelazione… uno di quei libri che ti aprono un mondo. L’ho letto e riletto più volte, consumato di note e regalato con gioia.

Racconta per filo e per segno qualcosa che ai tempi avevo solo intuito durante il mio percorso professionale ma non ero mai riuscita ad articolare così chiaramente.
Ries lo fa con una leggerezza, una facilità e una trasparenza senza eguali.
Ecco perché ho deciso di partire da questo volume per inaugurare una nuova serie di post: “I libri migliori per Product Owner”.

Il libro parla del mondo delle startup (come è intuibile dal titolo), ma i principi ed i suggerimenti che contiene sono dal mio punto di vista preziosi in qualunque contesto di mercato.
Questo volume ha proprio cambiato il mio modo di pensare; mi ha illuminato con un metodo che applico istintivamente a tutti i progetti in ambito professionale e tendo a far sconfinare anche al di fuori del lavoro.

Sono 5 i concetti-chiave che mi hanno più influenzato come Product Owner e voglio ripercorrerli con voi uno ad uno. Parliamo di flessibilità, apprendimento validato, Minimum Viable Product, cicli di feedback e metriche di qualità.

Rimani flessibile

Le startup a differenza delle aziende consolidate non possono prevedere il proprio futuro perché non hanno passato e non sanno (ancora) quali sono gli approcci migliori per trovare clienti o creare un’attività sostenibile.
Per scoprire cosa potrebbe funzionare, devono rimanere flessibili. Nel loro caso adottare piani fissi con traguardi prestabiliti o fare affidamento su previsioni di mercato a lungo termine significa illudersi. Perché gestire una start-up è come guidare una jeep su un terreno accidentato: i fondatori devono costantemente cambiare direzione e rispondere rapidamente a ostacoli imprevisti e vicoli ciechi.

Come Product Owner tendo a storcere il naso quando sento parlare di roadmap “annuali” e di pianificazioni che vanno oltre i 6 mesi. Non fraintendetemi: ha tutto il senso del mondo definire degli obiettivi di business annuali o pluriannuali ma non credo che il percorso su come raggiungerli (la roadmap appunto) sia scritta sulla pietra.

Oltre l’orizzonte temporale di metà anno tutto ciò che viene dichiarato è potenzialmente soggetto a cambiamento per motivi interni ed esterni all’azienda (nuove opportunità di mercato, la necessità di rispondere alle mosse di un competitor, una ripianificazione delle priorità a fronte di determinati risultati).
Posso immaginare che nell’edilizia la pianificazione di un complesso sia un progetto che è meno soggetto a fluttuazione ma nel mondo digitale 6 mesi sono un periodo lungo in cui lo scenario può essere stravolto anche sono dall’evoluzione della tecnologia stessa.
Per questo motivo come Product Owner evito di fare piani dettagliati che vadano oltre i 6 mesi e per periodi successivi mi limito ad indicare una serie di temi (di alto livello) che saranno oggetto di sviluppo, ma che possono essere riconsiderati periodicamente strada facendo.

Rimanere flessibile mi consente di cogliere opportunità più interessanti che si presentano lungo il percorso e che non erano previste in fase iniziale o di riconsiderare le mie priorità se nuovi dati le mettono in discussione.

Non dare per scontato il valore

L’obiettivo principale di qualsiasi startup è trovare un modello di business redditizio e sostenibile.
In pratica, questo significa scoprire quali prodotti desiderano i potenziali clienti e come trasformare i loro desideri in ricavi costanti.

Alla base di ogni prodotto esistono infatti due presupposti fondamentali: l’ipotesi del valore e l’ipotesi di crescita.
L’ipotesi del valore presuppone che un prodotto fornirà valore ai propri clienti, ovvero che i primi utilizzatori troveranno e abbracceranno il prodotto.
L’ipotesi di crescita afferma che il prodotto non solo piacerà alla nicchia degli early adopters, ma troverà anche un mercato più ampio in seguito.

E’ importante comprendere che questi concetti sono ipotesi e come tali devono essere testate e convalidate parlando con i clienti. Solo in questo modo sapremo di essere sulla strada giusta per trovare un modello di business sostenibile.

Come Product Owner non posso dare nulla per scontato, anche che ciò che l’azienda ritiene sia di valore per il cliente finale. Ho spesso sperimentato che le società affermano di conoscere il loro pubblico ma presumono, a volte dimostrano anche una certa arroganza nel pretendere di sapere a priori ciò che vogliono i clienti, ma la verità è che fino a quando un prodotto non va in mano ad un utilizzatore finale non saprai mai quanto piacerà e come verrà utilizzato.

Sapete come si dice? Customer is king! Quindi la cosa più di valore che posso fare per assicurare il successo di un prodotto è lasciare da parte il mio “corporate ego”, rimanere umile, approcciare il cliente ed ascoltarlo. Tutto il resto è presunzione!
Se avete bisogno di indicazioni pratiche su come farlo le trovate in questo post dedicato alle 15 domande per costruire le Personas.

Testa le idee con esperimenti

Come si possono mettere alla prova le idee di valore e di crescita? Semplice! E’ necessario formulare ipotesi su se e come determinati prodotti avranno successo in un particolare mercato.
E’ stato questo il caso di Zappos che, prima di lanciare il suo business in rete e ben prima dell’acquisizione da parte di Amazon, ha testato l’assunzione più rischiosa di tutto il suo modello di business: “i clienti statunitensi saranno disposti ad acquistare scarpe online”.

Nick Swinmurn – fondatore dell’azienda – l’ha fatto nel 1999 creando una versione minima del prodotto (MVP), ma minima davvero. Ha rilasciato un sito “civetta”, il front-end di un negozio di scarpe online senza che esistesse alcun tipo di back-end, di infrastruttura dietro o di magazzino. Ha evaso i primi ordini acquistando e spedendo le scarpe precedentemente fotografate direttamente nei negozi.
Questo MVP gli ha permesso di verificare che l’idea di business iniziale era valida.

Sono tristemente consapevole di quanto il concetto di MVP nelle aziende digitali sia stato scarsamente compreso, spesso osteggiato e molto vituperato (… a quanto pare oggi “fa più figo” parlare di Minimum Lovable Product).

Non entro in questa polemica che richiederebbe un post a sé, ma mi preme sottolineare il principio che ne sta alla base: quando non si è ancora trovato il product/market fit, quando il valore è ancora solo un’ipotesi il MVP dovrebbe essere il più semplice possibile e contenere solo ciò che è necessario per offrire ai clienti un’esperienza realistica di come funzionerebbe il prodotto. Serve solo quanto basta per trarre utili feedback!
Qui trovate uno strumento che potrebbe supportarvi nel creare esperimenti Lean.

Diverso è il caso di un prodotto consolidato che viene riproposto in una nuova veste o riaggiornato. In questo caso il “minimum” accettabile dal cliente non è meno delle funzionalità già presenti nel prodotto. In ogni caso questo approccio può tornarvi molto utile per evitare eccessivi sviluppi upfront o gold plating.

Costruisci – Misura – Impara

Ries si sofferma a lungo sui benefici del ciclo Build – Measure – Learn (BML) in Lean Startup.


Come funziona? Si costruisce una versione semplice del prodotto, come un prototipo o uno smoke test, lo si porta sul mercato e si raccolgono i feedback dei clienti.
Con i dati quantitativi di questo esperimento si misura l’interesse per il prodotto, nel caso di Zappos quante persone hanno cliccato sul pulsante “buy” e hanno provato ad acquistare scarpe dal negozio fake.
Ciò che si impara in un ciclo completo viene utilizzato per ottimizzare il prodotto che nella versione migliorata fa partire il successivo ciclo BML.
Ci sono due aspetti importanti qui: la velocità del feedback loop è fondamentale e un prodotto non è mai finito al primo rilascio!

Personalmente credo molto nel feedback loop (e non solo in ambito digitale!).
Questo è l’approccio corretto non solo per il lancio di un nuovo prodotto, ma per qualsiasi ottimizzazione vogliate fare.
Costruite un MVP o una nuova funzionalità o una nuova interfaccia, la mettete nelle mani di clienti reali e analizzate quanto e in che modo il prodotto cambia i loro comportamenti.
Se non misurate i risultati non avete modo di imparare alcunché!

Allo stessa stregua come Product Owner utilizzo estensivamente gli esperimenti per testare varianti del mio prodotto. Gli A/B test e in generale tutti i test dai più semplici ai più complessi dovrebbero essere il pane quotidiano per chi lavora in ambito prodotto.
Anche quando avete raggiunto una buona conoscenza del target e del mercato scoprirete che i test riusciranno sempre a stupirvi. I risultati inaspettati sono all’ordine del giorno.

Cerca le metriche giuste

Definire le metriche corrette da monitorare e valutarle con costanza è fondamentale per qualsiasi startup… e per qualsiasi prodotto aggiungo io!
Solo quando vediamo i KPI di riferimento migliorare sappiamo di essere indirizzati verso il raggiungimento degli obiettivi a lungo termine.
Ovviamente queste metriche possono variare – e di molto – da business a business, quindi non esiste una formula magica che possa valere per tutti.

Le metriche “giuste” sono quelle che ci consentono di capire se stiamo andando nella giusta direzione. Eric Ries sottolinea come molte startup cedano alla tentazione di utilizzare “vanity metrics”, metriche lusinghiere ma inutili o addirittura dannose che fanno sembrare un’azienda buona ma non aiutano ad avvicinarla ai suoi obiettivi.
E’ fin troppo facile farsi lusingare da tanti like su Facebook: possono essere fonte di gran soddisfazione ma questi apprezzamenti non pagano gli stipendi e non rappresentano in alcun modo un modello di business sostenibile.

Come Product Owner è mia responsabilità capire quali sono le metriche più adatte per misurare le specificità del mio prodotto. Senza dati sono totalmente cieca.
Posso avere delle intuizioni circa la strada da intraprendere, posso aver collezionato feedback dai miei utenti, ma ho in ogni caso bisogno di dati quantitativi affidabili per prendere delle decisioni informate e giustificarle agli occhi degli stakeholder.
I dati mi aiutano ad eliminare sul nascere qualsiasi guerra di opinione.

Conclusione

Le startup utilizzano un approccio semi-scientifico per testare le loro ipotesi di base e costruire un modello di business sostenibile sulle ipotesi convalidate.
Io Product Owner posso trarre vantaggio dal metodo Lean Startup decidendo di sviluppare rapidamente prototipi di prodotto e perfezionandoli continuamente attraverso il feedback dei clienti. Eseguendo cicli di costruzione, misura e apprendimento (BML) incremento significativamente le possibilità di successo del mio prodotto.