Il team player ideale

Oggi cambiamo topic, non parliamo di prodotto bensì di team e in particolare delle caratteristiche ideali di un team member.
Un amico mi ha segnalato questo libro – “Il team player ideale” di Patrick Lencioni – dicendomi che “gli ha aperto un mondo”.

E’ un Agile coach di grande esperienza e i suoi suggerimenti sono sempre preziosi per me quindi mi sono sparata la lettura in 2 giorni e vi condivido le principali riflessioni che mi sembrano interessanti.

Come scegliere il team player giusto?

Il libro parte da una domanda: le aziende che dicono di puntare sul lavoro di squadra come possono essere certe di selezionare e trattenere le persone giuste?

Jim Collins in “Good to Great” spiega quanto sia importante per le imprese di successo “imbarcare le persone giuste ”, ovvero assumere e poi trattenere in azienda dei dipendenti che sono allineati alla cultura aziendale, tenere nei posti chiave personaggi adatti alla cultura dell’azienda e far presidiare loro il processo di selezione dei nuovi candidati.

Ma quali caratteristiche definiscono esattamente un team player ideale?
Secondo Lencioni un vero team player è umile, appassionato e brillante. Vediamo cosa intende esattamente con queste qualità.

Le 3 qualità del team player ideale

Umiltà

L’umiltà è secondo l’autore il più importante e indispensabile attributo di un vero team player ma anche – sorprendentemente – l’aspetto più trascurato da così tanti manager che danno valore al lavoro di squadra.

Questa è la descrizione di umiltà che dà Lencioni:

“I team player migliori non hanno un ego ipertrofico e non danno importanza al proprio status. Sono rapidi nell’evidenziare i contributi degli altri e lenti nel sottolineare i propri. Condividono i meriti, elogiano la squadra molto più di se stessi e preferiscono parlare di successo collettivo anziché di successo individuale”.

Secondo l’autore ci sono due tipi di persone non umili che è bene individuare:

  • il tipo più ovvio è quello apertamente arrogante, totalmente concentrato su se stesso, che tende a vantarsi e ad assorbire tutta l’attenzione;
  • l’altro tipo sono le persone che mancano di fiducia in se stesse, pur essendo generose e positive nei confronti degli altri.

Questa seconda casistica mi ha spiazzato ma nella visione di Lencioni è chiaro perché si tratta di un problema: una persona che ha scarsa considerazione del suo valore nuoce gravemente ai team perché non sa sostenere le sue idee o non è in grado di attirare l’attenzione sui problemi che vede.

In sostanza l’insicurezza è sempre un problema nel lavoro in team sia che si vesta di presunzione sia nella svalutazione delle proprie capacità.

Passione

“Le persone appassionate non devono quasi mai essere spinte da un capo a lavorare più sodo, perché sono diligenti e trovano in sé la motivazione per svolgere i compiti loro affidati.”

La passione è la motivazione interna che spinge una persona a dare il massimo nel proprio lavoro perché questo è fonte di soddisfazione e di crescita.

Questa qualità più di tutte le altre può essere millantata durante i colloqui perché la maggior parte dei candidati sa come proiettare un’immagine di sé quale persona appassionata, tuttavia è una bugia con le gambe corte: è osservabile nel comportamento e spesso misurabile. Ecco perché nella vita lavorativa di tutti i giorni non si può fingere di essere appassionati quando questa motivazione interiore non c’è.

Qual è il risultato? Manager che finiscono per passare una quantità spropositata di tempo a cercare di motivare, punire o licenziare questo genere di collaboratori portati a bordo con poca attenzione.

Per evitare assunzioni di questo tipo Lencioni fornisce una serie di suggerimenti sul tipo di domande che potete utilizzare nei colloqui per “smascherare” finti appassionati.

Essere brillanti

Essere brillanti è – secondo l’autore – un concetto relativamente semplice e sensato, ma che viene spesso trascurato poiché molti dirigenti assumono personale guardando più alle competenze e alle abilità tecniche che alle cosiddette soft skills.

“L’essere brillanti significa semplicemente utilizzare il buon senso nelle relazioni con gli altri.”

Potremmo definire questa qualità come intelligenza sociale o intelligenza emotiva.

Quando una delle qualità manca

Il modello in oggetto prevede la compresenza delle 3 qualità “umile – appassionato – brillante” ma – parliamoci chiaro – sono poche le persone che incarnano la perfezione da questo punto di vista. La situazione più frequente che potete incontrare è una persona che non possiede tutte e 3 le caratteristiche allo stesso tempo o che ne presenta una sbilanciata rispetto alle altre.

Ecco cosa succede in questi casi:

  • Gli individui che sono umili e appassionati ma non brillanti sono spesso “involontariamente caotici”.
    La loro mancanza di comprensione del modo in cui le loro parole e azioni sono recepite dagli altri li portano senza volere a creare problemi nel team.
  • Chi è umile e brillante ma non sufficientemente appassionato viene classificato come “adorabile lavativo”.
    Non è alla ricerca di attenzione e lavora bene con i colleghi ma tende a fare solo ciò che è richiesto e niente più. Tuttavia dato che di solito sono positivi e amabili i responsabili tendono a trascurare i loro limiti.
  • Gli individui che sono appassionati e brillanti ma mancano di umiltà rientrano nella categoria degli “abili politici”.
    Sono persone intelligenti, ambiziose e disponibili a lavorare sodo, ma solo nella misura in cui ne possono trarre un beneficio personale. Purtroppo essendo brillanti sono in grado di presentarsi come collaboratori umili e può risultare difficile per i responsabili dei team notare i loro comportamenti distruttivi.

Selezione e feedback

Lencioni insiste sul fatto che se il lavoro di squadra è davvero un valore per l’azienda (e non semplicemente uno slogan su carta) è necessario mettere in atto un processo di selezione che vada ad indagare puntualmente i 3 aspetti del modello e non faccia sconti di sorta.

“In tanti cercheranno di ottenere il posto anche se non in sintonia con i valori dichiarati, ma pochi lo faranno sul serio quando comprenderanno che saranno ritenuti responsabili giorno dopo giorno dei loro comportamenti.”

Che fare però con le persone che sono già presenti in azienda?
In questo caso è opportuno fare un assessment interno ed intervenire laddove sono presenti situazione problematiche.

“Troppo spesso i manager sanno che una determinata persona non è in grado di far parte di un gruppo e che starebbe meglio altrove ma non agiscono per mancanza di coraggio e questo atteggiamento non è né saggio né virtuoso.”

Prendere il tempo per conoscere il proprio team in maniera approfondita è sempre un ottimo investimento; se poi doveste rilevare atteggiamenti non consoni potete fare leva sul feedback.

Il feedback è lo strumento più importante del processo di miglioramento e la parte che è più spesso mancante. ll manager in questo caso ha il dovere di “ricordare” in maniera costante al collaboratore che non sta ancora facendo ciò che serve all’organizzazione. Senza questo intervento non c’è alcun miglioramento.
Chi di voi non lo ha sperimentato? Vi ritrovate per l’ennesima volta a dover dire a una persona che non sta lavorando come dovrebbe o che il suo modo di interagire con i colleghi è inadeguato. Non potete credere di dover rifare ancora questa spiacevole conversazione…

Ebbene sì. È spiacevole e imbarazzante, ma Lencioni sottolinea come sia esattamente ciò che ci si aspetta da chi dirige un team o un’organizzazione perché l’assenza di feedback puntuali e immediati crea situazioni ingestibili.

Secondo l’autore de “Il team player ideale” chiarire i comportamenti che ci si attende dai collaboratori è persino più importante che porre obiettivi di performance.
Che dite? Siete d’accordo?

Le 5 fasi del Design Thinking

Come avviene praticamente il processo di sviluppo del prodotto secondo questo framework?

Qualche settimana fa abbiamo parlato di cos’è il Design Thinking e come possa essere impiegato per la risoluzione di problemi che hanno al centro le persone. Oggi entriamo nel dettaglio di questo processo e delle sue diverse fasi.

La maggior parte delle aziende e dell’industria utilizza un processo che va da quattro a sei fasi e tipicamente è composto da un ciclo progettuale che precede il processo di sviluppo. Si va dallo sviluppo del concept all’ideazione di alto livello, dalla progettazione di dettaglio al test fino all’implementazione vera e propria con lo scaling della produzione e delle operations.

Il Design Thinking formalizza la prima parte del processo, ovvero tutto ciò che avviene nella fase progettuale prima dello sviluppo.
Questo è il motivo per cui in alcuni schemi e rappresentazioni potreste vedere 6 fasi invece di 5: in coda al framework di Design Thinking vero e proprio trovate lo step fattuale (come potete vedere nell’immagine in fondo al post ripresa dal sito Nielsen Norman Group).

Le 5 fasi del Design Thinking
Le 5 fasi del Design Thinking: Empatizzare, Definire, Ideare, Realizzare un prototipo, Testare

Una cosa importante da notare è che il framework si applica perfettamente sia ai prodotti che ai servizi. Non è necessario adottarlo solo per la creazione di prodotti fisici, anche i servizi che per loro natura sono per lo più immateriali possono essere costruiti con successo con il Design Thinking.
Il processo è tutt’altro che casuale: si basa su una serie di passaggi discreti che, se svolti correttamente e con attenzione, sono affidabili e portano a risultati concreti e ripetibili.
Vediamoli!

Fase 1: Empatizzare (Emphatize)

Il processo di sviluppo del prodotto inizia con la fase di sviluppo del concept, step che a sua volta può essere suddiviso in ulteriori sotto-passaggi.
Il primo di questi passaggi è l’attività di analisi delle esigenze del cliente (ne abbiamo già parlato in riferimento alle personas e alla metodologia jobs to be done).
Questa fase ha come input il risultato del processo di pianificazione – il mission statement – e si conclude con un elenco validato delle esigenze dei clienti.

Empatizzare significa condurre ricerche online e sul campo per sviluppare la conoscenza di ciò che gli utenti fanno, dicono, pensano e sentono.

Immaginiamo che il nostro obiettivo sia migliorare un’esperienza di onboarding per i nuovi utenti. In questa prima fase parliamo con alcuni utenti reali, li osserviamo direttamente nel contesto in cui usano il prodotto / servizio. Andiamo a scoprire cosa fanno, come pensano e cosa vogliono, ponendoci domande di questo tipo: “cosa motiva o scoraggia gli utenti?“, “dove provano frustrazione?“, “quale bisogno rimane insoddisfatto?”.

L’obiettivo di questa fase è raccogliere abbastanza osservazioni da poter davvero iniziare a entrare in empatia con gli utenti e le loro prospettive.

Fase 2: Definire (Define)

Durante la fase di definizione vengono messe insieme e condivise le informazioni create e raccolte durante la fase di empatia. In questo momento vengono analizzate e sintetizzate le osservazioni per definire i problemi centrali che il gruppo di lavoro ha identificato.

Il problema da risolvere dev’essere definito dal punto di vista delle persone, non come un obiettivo di business.
Facciamo un esempio: invece di definire il problema come un bisogno dell’azienda del tipo “Dobbiamo aumentare la nostra quota di mercato dei prodotti alimentari tra le giovani adolescenti del 15%“, un modo molto migliore per formularlo potrebbe essere “Le adolescenti hanno bisogno di mangiare cibo nutriente per sentirsi bene, essere sane e crescere in salute“.

La definizione del problema aiuterà i progettisti a raccogliere idee per stabilire caratteristiche e funzioni del futuro prodotto o servizio.

Al termine della fase di definizione si inizia a passare alla fase successiva mediante domande che possono stimolare idee e conversazioni.
Tipicamente queste domande sono formulate così: “Come potremmo… incoraggiare le adolescenti a compiere un’azione che le avvantaggia e coinvolga anche il tuo cibo-prodotto o servizio dell’azienda?

Fase 3: Ideare (Ideate)

Durante la terza fase del processo di Design Thinking, i designer sono pronti per iniziare a generare idee. Hanno raccolto informazioni per capire gli utenti e le loro esigenze nella fase dell’empatia, hanno analizzato e sintetizzato le osservazioni nella fase di definizione e sono arrivati ad una dichiarazione del problema incentrata sulle persone direttamente interessate.

Con questo bagaglio di conoscenze acquisite, il team di lavoro inizia a “pensare fuori dagli schemi” per identificare nuove soluzioni al problema e cerca modi alternativi di rappresentarlo.

In questa fase si applicano tipicamente diverse tecniche di ideazione. Non ce n’è una migliore di un’altra, ne esistono a centinaia e potete scegliere quella che vi è più consona o provarne diverse applicate al medesimo problema (brainstorming, brainwriting, worst possible idea e il metodo SCAMPER).
Le sessioni di Brainstorming e Worst Possible Idea sono di solito utilizzate per stimolare il pensiero creativo ed espandere lo spazio del problema.

Un aspetto importante in questa fase è ottenere quante più idee o soluzioni possibili al problema. Non fermiamoci alla prima idea che ci sembra essere risolutiva!
Il Design Thinking da questo punto di vista non è un approccio economico, sostiene anzi la necessità di generare una quantità di idee perché è da questa diversità che emergeranno le migliori risposte al problema.

Fase 4: Realizzare un prototipo (Prototype)

Il team di progettazione a questo punto andrà a produrre una serie di versioni ridotte e poco costose del prodotto / servizio in modo da poter esaminare la soluzione dei problemi individuati nella fase precedente.
Non pensate a nulla di sofisticato: i prototipi possono essere schizzi su carta, modelli creati con carta e cartone, scarne interfacce digitali o qualsiasi altro tipo di rappresentazione veloce che consenta di trasmettere l’idea agli interlocutori.

I prototipi possono essere condivisi e testati all’interno del team stesso, in altri reparti o su un piccolo gruppo di persone, clienti o potenziali clienti.

Questa è una fase sperimentale e l’obiettivo è identificare la migliore soluzione possibile per ciascuno dei problemi individuati durante le prime tre fasi.
Le soluzioni implementate nei prototipi vengono una per una indagate, accettate, migliorate, riesaminate o rifiutate sulla base dei feedback degli utenti.

Alla fine di questa fase il team di progettazione avrà un’idea più concreta dei vincoli inerenti al prodotto / servizio e dei problemi riscontrati oltre che una visione più chiara di come si comporteranno, penseranno e si sentiranno gli utenti reali interagendo con esso.

Fase 5: Testare (Test)

L’ultima fase del Design Thinking consiste nel testare rigorosamente il prodotto completo utilizzando le migliori soluzioni individuate durante la fase di prototipazione.
E’ il momento di tornare dagli utenti per raccogliere feedback.
Il prototipo viene messo di fronte a clienti reali e si verifica che raggiunga gli obiettivi prefissati.
Dobbiamo chiederci a questo punto “la soluzione soddisfa le esigenze degli utenti?” e “ha migliorato il modo in cui si sentono, pensano o svolgono le loro attività?

Questa è la fase finale del modello a 5 fasi, ma essendo un processo iterativo, i risultati generati durante il test vengono spesso utilizzati per ridefinire uno o più problemi, riconsiderare la comprensione degli utenti, le condizioni di utilizzo, il modo in cui le persone pensano e si comportano.
Alla fase di test segue lo sviluppo vero e proprio, quello che per alcuni è il sesto step.

Il processo di Design Thinking
Il processo di Design Thinking secondo Nielsen Norman Group

Il Design Thinking non è lineare

Quando si parla di fasi siamo portati a pensare a un processo diretto e lineare in cui uno step segue all’altro e ha una conclusione logica durante i test degli utenti. Tuttavia nella pratica il processo di Design Thinking viene eseguito in modo più flessibile e non lineare.

Ad esempio, diversi gruppi all’interno del team di progettazione possono condurre più di una fase contemporaneamente, oppure i designer possono raccogliere informazioni e prototipi durante l’intero progetto in modo da dare vita alle proprie idee e visualizzare le soluzioni dei problemi.
I risultati del test possono rivelare alcune intuizioni sugli utenti, che a loro volta possono portare a un’altra sessione di brainstorming (Ideate) o allo sviluppo di nuovi prototipi (Prototype) .

Tutto questo può sembrarvi caotico ma non lo è… abbiate fiducia nel processo!

Il processo di Design Thinking
Il processo di innovazione secondo il Design Thinking

Design Thinking: che cos’è e come può esserti utile

Quali sono le caratteristiche dei prodotti e dei servizi di successo? Che cosa rende un’innovazione tale? Ve lo siete mai chiesto?
Il Design Thinking ha una risposta precisa a queste domande.
Sto seguendo un corso del MIT dedicato al pensiero progettuale e approfitto per riorganizzare le idee.

Che cos’è il Design Thinking

Il Design Thinking è un approccio sistematico per creare innovazioni di successo, una metodologia per l’innovazione che combina capacità analitiche, attitudini creative e collaborazione tra le discipline.
In altre parole Il Design Thinking è un processo per la risoluzione creativa dei problemi.

Questo approccio è stato codificato attorno agli anni 2000 in California dall’Università di Stanford e ripreso poi da varie scuole e società tra cui la famosissima IDEO.
Pur essendo partito dagli studi di design, il Design Thinking sta prendendo piede negli ultimi anni nella consulenza direzionale, nella trasformazione digitale e nella progettazione software.

Il Design Thinking è la progettazione incentrata sull’uomo (human-centered design); incoraggia coloro che progettano a concentrarsi sulle persone per le quali stanno creando (ricordate le personas?), il che porta a prodotti, servizi e processi interni migliori.
Invita a cercare soluzioni innovative (solo) dopo aver individuato l’esigenza umana sottostante (non è questo un mantra per un Product Owner?).

Questa è la risposta del Design Thinking alla domanda su come creare prodotti innovativi.
Tutti i prodotti di successo hanno in comune tre dimensioni: la dimensione relativa alle persone, la dimensione tecnica e il lato business.

Le tre sfide per l’innovazione

Perché un’innovazione si possa dire veramente tale tutti e 3 questi aspetti devono coesistere.

“Impiegando il Design Thinking stai mettendo insieme ciò che è desiderabile da un punto di vista umano con ciò che è tecnologicamente fattibile ed economicamente sostenibile.”

Desiderabilità

Tutto ha inizio con l’idea che ci sia un problema là fuori che le persone hanno e che sarebbero disposte eventualmente a pagare per trovare una soluzione.
Nell’area delle persone dobbiamo essere ragionevolmente sicuri che la soluzione – ovvero il prodotto o il servizio che andiamo a proporre – sia desiderabile.
Le persone devono essere consapevoli di avere quel particolare bisogno.
A volte può capitare che ci voglia un po’ di lavoro prima che possano effettivamente riconoscerlo ma senza una vera necessità la soluzione che proponiamo è destinata a fallire: le persone non la compreranno.

Fattibilità

La seconda dimensione è la dimensione è di natura tecnica.
Dobbiamo essere in grado di risolvere questo problema in un modo tecnicamente fattibile.
In alcuni casi le soluzioni tecniche proposte possono risultare veramente molto difficili da implementare, possono richiedere risorse che non si hanno a disposizione o tecnologie che non sono ancora “pronte” per il mass market.
In questo caso il prodotto o servizio che proponiamo risolverebbe un bisogno riconosciuto dai nostri utenti, ma risulta tecnicamente irrealizzabile.

Sostenibilità

E ora la terza dimensione: il business.
Ammesso di avere davvero indirizzato uno o più bisogni e di avere trovato una soluzione tecnicamente fattibile, quello che proponiamo è anche sostenibile dal punto di vista della redditività? E’ in grado di generare ricavi?
Se non produce entrate sufficienti per pagare i costi, non saremo in grado di sostenere il prodotto per molto tempo (e perché dovremmo farlo poi?).
Il prodotto innovativo per essere tale deve anche realizzare un profitto per ripagare tutto l’investimento fatto. Va di pari passo con un modello di business (innovativo o meno).

Queste tre dimensioni insieme ci danno innovazione.
Se ne indirizziamo solo una o due, generalmente non possiamo avere un’innovazione di successo. D’altra parte non è necessario che tutte e 3 le dimensioni siano risolte immediatamente in una volta; l’importante è che al termine del processo siano tutte e 3 presenti.

Ad esempio è comune che durante l’attività di Design Thinking si parta da uno di questi aspetti. Potresti partire dalla dimensione delle persone o da un innovativo modello di business rispetto al quale sei abbastanza confidente di poterlo fare funzionare; parti da lì e poi alla fine risolvi le altre dimensioni.
Al contrario un ingegnere potrebbe partire dalla dimensione tecnica. Anche questa modalità può funzionare a patto però di rendersi conto che se la soluzione proposta non risolve una reale esigenza del cliente, se non c’è alcun desiderio da parte del mercato, il prodotto non avrà successo.
Inutile dire che se non c’è un business allora neanche il resto può funzionare a dovere…

Quando è utile il Design Thinking

L’abbiamo già detto: il Design Thinking è progettazione incentrata sull’uomo.
Questa affermazione porta con sé un corollario: se il problema che state tentando di risolvere non è “umano”, questo approccio potrebbe non fare al caso vostro.
No, non mi riferisco agli alieni… semplicemente al fatto che in molti casi come persone di prodotto ci troviamo a dover indirizzare progetti che nascono semplicemente da esigenze aziendali. Se stiamo cercando di risolvere un problema di redditività di un’azienda non correlato in alcun modo a un vero bisogno delle persone – sperabilmente i nostri utenti – il Design Thinking non è il framework che fa per noi, dovremo considerare altri tipi di risorse.

Spero a questo punto di avervi dato un’idea di massima di cos’è il Design Thinking.
In ogni caso continuerò a elaborare il tema in approfondimenti successivi. Comunque se volete avere un’idea più precisa del processo vero e proprio vi suggerisco la visione di questo video; è un po’ datato ma sempre valido.


Racconta il processo di Design Thinking in pratica applicato ad un progetto teorico (ma assolutamente realistico). Se lo guarderete sino alla fine vi stupirà vedere come innovazioni progettate nel ‘99 siano diventate oggi oggetti del nostro uso comune. Buona visione!