Chi scrive le user stories nel tuo Scrum team?

Se pensate che sia una domanda retorica ebbene non lo è!
E’ anzi un interrogativo su cui può essere utile mettere a confronto esperienze di vita diverse.
Questa riflessione nasce in seguito alla partecipazione ad un meetup di Pierluigi Pugliese intitolato “Stupidaggini che avete sentito su Scrum, Ep. 3: Le User Stories non si scrivono!”, organizzato all’interno del gruppo Milano Scrum/Agile User’s Group.

Il titolo – inutile dirlo – mi ha attirato ed ero sicura che potesse aggiungere spunti interessanti alle riflessioni su uno degli strumenti più utilizzati dai Product Owner.
Ma non parleremo soltanto di chi scrive le user stories, smonteremo anche alcune “leggende metropolitane” che derivano da cattive pratiche ed insegnamenti discutibili discussi durante l’incontro con l’Agile coach.

Inutile dire che molti di questi comportamenti errati li ho vissuti in prima persona e in alcuni casi so di esserne stata anche corresponsabile, quindi voglio fare la mia parte nel smantellarli insieme a voi.
Nella mia esperienza con diversi development team Scrum ho visto un po’ tutte le situazioni: dai team che non fanno partire lo sviluppo se non ci sono user stories super-dettagliate, al PO che si sobbarca l’intero onere della chiarificazione dei bisogni, ai team che che contribuiscono solo al livello degli acceptance criteria fino a quelli più navigati che sono in grado di scrivere storie end-2-end e spacchettarle a dovere.
Tutte queste situazioni – giuste e sbagliate – sono dei pattern ed è utile sapere come affrontarle.

Ma partiamo dalla prima di queste male pratiche…

Il minimalismo delle user stories

Le storie sono:

  • il valore di business che vogliamo generare per l’utente
  • una promessa di conversazioni
  • riassumono l’aspettativa di business
  • descrivono l’attività da fare
  • sono un elemento di pianificazione
  • non si scrivono

Vi ritrovate in queste affermazioni?
C’è forse qualcosa che vi stona?
Davvero le user stories non si scrivono? Cosa intende dire Pugliese?

Pierluigi con questa affermazione provocatoria vuole ribadire che le user stories non sono semplicemente un modo un po’ diverso di esprimere i requisiti, un altro tipo di formato, bensì piuttosto un modo minimalista per descrivere le funzionalità e di semplificare la parte burocratica.

Questo approccio minimalista funziona a patto che la conversazione tra stakeholder, sviluppatori e Product Owner avvenga davvero.
La scrittura è secondaria; la card riassume la conversazione e non ne contiene tutti i dettagli, solo ciò che serve al team per ricordarsi cosa deve fare.

Capite bene che questo approccio definito lightweight dagli agilisti (= leggero) sta in piedi se e solo se una reale interazione avviene.
Se non c’è un momento di confronto e di approfondimento qualsiasi user story sarà monca, una promessa (di conversazione) non avvenuta.
E a quel punto nascerà inevitabilmente la richiesta di una maggiore documentazione.
Infatti una cosa che mi è spesso capitato di notare è che quando i team sono meno maturi tendono a utilizzare le storie come copertine di Linus e chiedono al Product Owner di specificare e dettagliare molto di più.

Quando ravviso questo comportamento so che è il momento di alzare le orecchie.
Può essere un indicatore rilevante del fatto che:

  • il chiarimento non è ancora avvenuto (la card non serve a eludere la conversazione)
  • Il vero valore dello strumento user stories non è stato compreso (siamo di fronte a una trasposizione dei vecchi documenti di requisiti)
  • il team demanda in toto la chiarificazione al PO (di questo aspetto ne parliamo più in là…)
  • c’è scarsa fiducia tra gli interlocutori (questo – se vero – è l’aspetto più problematico che richiede attenzione immediata).

Le parole di Pugliese per me sono sempre illuminanti…

Senza la conversazione le user stories non hanno senso. Non sono una religione alternativa per scrivere i requisiti! Se usate in maniera stupida, meccanica, inutile e dannosa fanno spegnere il cervello agli sviluppatori

Chi fa la business analysis?

Chi è l’owner della business analysis? La domanda sembrerebbe retorica… in fondo esiste una figura professionale proprio per questo, tuttavia negli Scrum team come sapete non ci sono singoli “detentori” di attività.
E’ un punto importante spesso poco capito. Nel team ideale tutti fanno tutto, o meglio sono in grado di fare tutto. Nella realtà spesso non è così perché le competenze e le seniority sono diverse, ma pratiche come il peer programming e le pair review ci vengono in aiuto facendo sì che la conoscenza di tutto il team aumenti progressivamente con il tempo.

La stessa cosa vale per l’analisi dei requisiti.
Magari date per scontato che il momento della chiarificazione dei bisogni sia appannaggio del Product Owner e del business analyst (se avete la fortuna di averlo) ma non è così!

“Voglio che il team faccia business analysis” – ha insistito il coach durante il meetup – “Più persone possibili devono saper fare le domande giuste e ovviamente devono avere competenze di dominio sufficienti per fare le domande giuste”.

Ma a cosa punta questo approccio? La finalità è avere una responsabilità condivisa dell’intero Scrum team sul risultato finale. L’analisi è una premessa fondamentale per fare la modellazione di un sistema attraverso le user stories.
Per questo motivo secondo Pugliese è un’attività che può essere portata avanti direttamente dal team con gli stakeholder senza necessariamente la presenza del Product Owner (ricordate quando si diceva di “smettere di fare il piccione viaggiatore”?)

Il vero ruolo del Product Owner

Ma se il product owner non scrive le storie e non fa chiarificazione – ha chiesto un partecipante – qual è esattamente il suo ruolo?
Esattamente quello che prescrive la Scrum Guide: essere il responsabile di massimizzare il valore prodotto.

Il PO non fa chiarificazione, può partecipare a questa attività ma non è il suo focus primario. Il product owner regola il sistema dal punto di vista delle priorità; decide cosa fare del backlog (se una storia entra, non entra e con quale priorità). In questo modo fa strategia di prodotto.
Impiegarlo solo per spiegare o scrivere le user stories è di fatto svilire questa figura a un lavoro di segretariato, quando invece il suo vero scopo è capire cosa c’è di valore e come massimizzarlo.

Non possiamo pensare che gli stakeholder si mettano d’accordo sulle priorità perché hanno solitamente interessi troppo diversi. Il team può chiarire autonomamente cosa vuole ottenere lo stakeholder, ma poi è con il PO che ci si confronta sulle priorità.
Non è compito degli sviluppatori, dei designer o degli analisti decidere cosa è più importante e cosa no.

Detto questo vi chiedo: nella vostra esperienza quanta parte del lavoro del PO è focalizzato sulla massimizzazione del valore e quanto sulla scrittura e la chiarificazione? Adesso che sapete qual è l’approccio più produttivo ed efficace avete voglia di condividerlo con i vostri team?

Le 3 C delle user stories: carta, conversazione e conferma

Oggi parliamo di storie, un grande classico per i product owner, e andiamo alla base della loro costruzione esplorando insieme le 3 C delle user stories: carta, conversazione e conferma.

Ma cosa sono le user stories? Sono semplici descrizioni, contenute in una frase, di ciò che un determinato utente vuole ottenere raccontate dal suo punto di vista.
Sono nate nell’ambito dell’Extreme Programming prima dell’inizio di questo millennio (la loro origine si fa risalire al 1998) e sono poi diventate popolari in tutti i processi agile.

User story: qualche esempio di scrittura delle card

Facciamo qualche esempio pratico per capirci meglio.
Immaginiamo di stare sviluppando un sito di annunci (i cosiddetti classified) che consente a venditori e acquirenti di scambiarsi beni materiali e servizi accordandosi tra privati.
La nostra piattaforma avrà user stories come queste:

  • come utente di <nome della piattaforma> , posso effettuare ricerche su articoli specifici.
  • come venditore, posso facilmente consultare la lista di tutti i potenziali acquirenti interessati al prodotto che ho messo in vendita.

Come vedete sono frasi brevi che descrivono cosa un utente vuole fare, raccontate secondo il suo punto di vista.
Un’altra cosa che possiamo notare è che abbiamo più tipologie di utenti: nel primo caso parliamo di un utente generico, nel secondo adottiamo il punto di vista di uno dei principali attori della piattaforma (in venditore).

Possiamo fare la stessa cosa mettendoci dal punto di vista dell’acquirente:

  • come potenziale acquirente di una macchina usata, voglio poter vedere delle foto del veicolo.

Cosa manca ancora in questo esempio?
Manca un dettaglio che per me è la parte più importante delle user stories, la cosiddetta clausola so-that.
Ciò che spiega perché un determinato utente vuole una certa cosa, qual è la sua finalità, qual è il risultato finale a cui tende (o outcome).

La storia potrebbe prendere allora questa forma:

“come potenziale acquirente di una macchina usata, voglio poter vedere delle foto del veicolo così da potermi accertare delle sue condizioni”

O dal punto di vista del venditore:

“come proprietario di un auto che desidero vendere, posso creare una pagina in cui descrivere lo stato dei veicolo e mostrarlo al suo meglio”

Notate che stiamo parlando della medesima funzionalità (le foto associate al prodotto) da due punti di vista differenti: quello del venditore e quello dell’acquirente.

User story: l’importanza del punto di vista

Bene, abbiamo introdotto il formato più classico con cui si scrivono le user stories:

Come <tipo di utente>, voglio <funzionalità> così da <obiettivo o valore per l’utente>.

Semplice ed efficace! Chiunque è in grado di esprimere un bisogno, una necessità o un desiderio secondo questo formato.
Ma non è solo la semplicità ad essere la chiave del successo delle user stories, l’elemento essenziale qui è la prospettiva: il punto di vista che adottiamo ci aiuta a relazionarci con specifiche tipologie di utenti, a metterci nei loro panni.

Sembra un dettaglio ma non lo è.
Ditemi se vi fa lo stesso effetto esprimere le medesime funzionalità come si descrivevano una volta nei documenti di requisiti …

  • il sistema consente all’utente di effettuare una ricerca
  • il sistema consente all’utente di pubblicare online un prodotto
  • il sistema consente all’utente di associare una o più foto a un prodotto

Il significato di queste affermazioni è lo stesso ma nel primo caso rispondiamo con più empatia perché stiamo mettendo l’utente – una persona – al centro della scena.

User story: la conversazione a partire dalla carta

Un errore in cui cadono spesso i team che muovono i primi passi con i framework agili è pensare che una volta scritta la user story tutto sia chiaro e definito.
In realtà chi ha un po’ più di esperienza alle spalle sa bene che la scrittura è solo l’inizio del gioco.
Non dobbiamo dimenticare che la user story comprende tre C:

  • una scheda o carta (= card),
  • la conversazione (= conversation)
  • criteri di conferma (= confirmation).

Le 3 C sono un’allitterazione ideata da Ron Jeffries per chiarire che una user story è più di un semplice testo scritto su carta fisica o su strumento software.
Le user stories sono brevi, non sono fatte per contenere molti dettagli bensì per agevolare delle conversazioni (si parla anche delle storie anche come “placeholder per conversazioni con il team”).
La carta è solo una delle tre C, la più visibile, e anche quella meno importante.

Mi è capitato in passato di lavorare con team che pretendevano di avere il massimo livello di dettaglio nelle storie; questo desiderio di chiarezza e completezza per quanto comprensibile dà l’illusione che tutto sia stato definito e compreso ma non aiuta le persone ad uscire dalla propria comfort zone e fare il “viaggio di scoperta” nei bisogni dell’utente.
E’ dall’interazione tra il product owner, il team allargato e gli utenti che nasce la vera comprensione di ciò che c’è da fare, non da una frase scritta su un pezzo di carta.

Non si tratta di un modo alternativo di scrivere requisiti, la card è “una promessa a due vie” come dice Mike Cohn:

  • la promessa del team di porre domande prima di iniziare a lavorare su una storia
  • la promessa del product owner di essere disponibile ad approfondire l’argomento.

Questi due aspetti insieme ci evitano di dover scrivere corposi documenti di specifiche contenenti ogni singola funzionalità.

Se il team si parla prima di iniziare a lavorare, il product owner può specificare solo quanto basta per poter avere quella conversazione.
E’ la conversazione in sé che rende agile un team, non la scrittura delle storie, l’utilizzo di post-it o di tool come Jira.

User story: la C di conferma

Quando Mike Cohn illustra questa parte delle storie dice che non gli piace iniziare qualcosa se non capisce come saprà quando ha terminato. E a chi piace questa incertezza?
I criteri di conferma di una user story servono proprio a questo; sono il modo in cui il product owner definisce insieme al team ciò che deve essere fatto affinché lo sviluppo possa essere considerato completo.

Ricordate quando a scuola per la prima volta un insegnante vi ha assegnato un riassunto di un libro? Alzi la mano chi non si è chiesto quanto dovesse essere lungo lo scritto!
Ecco, questo è un classico esempio di criterio di accettazione. Per alcuni professori una sintesi di una pagina è accettabile, per altri non si parla di sufficienza sotto le 3 pagine (e non pensate di barare con la dimensione del testo e l’interlinea!).

Una parte della conversazione tra il team e il product owner prima di lavorare una storia riguarderà proprio i criteri di conferma, ovvero come ciò che sarà sviluppato verrà valutato per l’accettazione durante la sprint review.
Si tratta delle “condizioni di soddisfazione” della storia. In altre parole, affinché il product owner possa considerare la user story fatta, una determinata cosa deve fare questo, quello e quell’altro.

Torniamo al nostro esempio di prima quando parlavamo della possibilità di associare delle foto all’auto che il nostro utente vuole mettere in vendita.
Per questa user story potremmo definire criteri di accettazione di questo tipo:

  • i formati di immagine accettati dal sistema (es. jpg, png, ecc.)
  • il peso massimo della singola immagine
  • la possibilità di vedere un’anteprima dell’immagine caricata
  • e magari anche la possibilità di poter ruotare eventuali immagini capovolte prima della pubblicazione.

User story: la prima C da sola non basta!

Siamo arrivati alla fine del nostro excursus sulle user stories.
Come abbiamo visto le storie non sono un nuovo modo di scrivere i requisiti, ma molto di più. Hanno come minimo 3 funzioni:

  • sono un placeholder per una conversazione sui bisogni degli utenti
  • sono strumenti per capire cosa vogliono gli utenti e cosa ha senso realizzare
  • sono un modo per programmare il lavoro del team.

Quindi ricordatevi di prestare attenzione a tutti e 3 gli aspetti: non solo al testo che andrete a scrivere su una scheda, ma anche alle conversazioni sulla funzionalità e ai criteri di conferma che utilizzerete per determinare se la storia è completa.

Note

Questo post è liberamente tratto dalle lezioni di Mike Cohn sulle user stories. Se volete approfondire vi consiglio il suo corso – molto valido – “Better User Stories“.

Nel blog trovate anche diversi post dedicati alle storie. Eccone qui una piccola selezione:

Backlog declutter 2: come mettere ordine tra le user stories

Come scegliere i requisiti da tenere seguendo il criterio della felicità… dei clienti!

Questa è la seconda parte di un post dedicato al declutter del backlog.
Qui, se ve la siete persa, trovate la prima parte.

Ci siamo lasciati parlando di user stories che hanno campeggiato troppo a lungo nel product backlog senza mai essere state portate in priorità. 
Vediamo quali altri casi sono buoni candidati per l’eliminazione.

Le user stories che ho nel mio backlog  hanno individuato un soggetto reale?
Stiamo parlando di persone o di moduli?
Si tratta di un’attività di valore?
Abbiamo individuato un reale bisogno o solo una soluzione tecnica?
Queste storie sono ottimi spunti per fare pulizia.
E poi la coerenza con la strategia generale. Potremmo avere in realtà degli item così vecchi che sono ormai superati perché le strategie aziendali hanno preso una direzione differente.

Sono tutte considerazioni che possiamo fare.
Non temete di eliminare troppo, non rimarrete mai senza nulla…
Se invece vi sentite sopraffati dall’impresa non scoraggiatevi. 
C’è sempre chi ha affrontato di peggio, come nel caso di una transizione a LESS in cui si è passati da 508 item a 23 user stories. Qui probabilmente si erano spinti un po’ troppo in là con la granularità, però è un buon esempio del fatto che è possibile fare un’operazione significativa di pulizia. 
Come? Seguendo gli step che stiamo percorrendo noi… hanno fatto un lavoro colleggiale, hanno stampato tutti gli item e li hanno classificati, che è esattamente il passo successivo.

Adesso con tutte le card davanti a noi concentriamoci su quali criteri utilizzare nel processo di eliminazione.

Categorizzare le user stories

Per fare ordine dopo la fase dell’eliminazione si passa al categorizzare. 
Riordinare per categoria è un altro principio cardine nella gestione del clutter fisico. 
Non si riordina stanza per stanza ma categoria per categoria: vestiti, libri carte, ricordi.
Andremo a individuare delle categorie e a classificare gli item uno alla volta. 
Ognuno di voi dovrà trovare il criterio che meglio si adatta al proprio caso. 

Ecco qualche idea: categorizzate per epiche, step dello user journey, impatti, stakeholder o obiettivi di business. Potete focalizzarvi sul contenuto, sul valore, sugli interlocutori e molto altro. 
Il mio consiglio fondamentalmente è di provare varie classificazioni e vedere quella che meglio si adatta al vostro caso. Personalmente ho iniziato utilizzando gli step del processo poi mi sono resa conto che non era esattamente ciò di cui avevo bisogno, era troppo vincolante mentre mi sono trovata molto meglio con quelli focalizzate sulla parte dei contenuti.

Mettere a confronto

Una volta che siete riusciti a categorizzare le vostre storie dovete fare un lavoro all’interno di ognuna di queste categorie e procedere per confronti.
In sostanza avete definito dei sotto raggruppamenti nel backlog e in ognuno di questi fate un lavoro di prioritizzazione.
Potreste scoprire anche in questa fase che qualcosa può essere ancora eliminato. Ad esempio se provassimo a vedere ognuna di queste categorie attraverso il principio di Pareto qual è il 20% delle user stories che producono 80% del valore?
Quali sono dei must? Quali should o could?
Siamo in grado di individuare i must-have per gli utenti e quelle storie che invece possono fare la differenza ed essere dei delighters?
Trovate il focus!
Provate a riconsiderare ognuna di queste categorie sulla base di varie tecniche di prioritizzazione. Più una… che ho tenuto a parte.

La felicità come criterio di scelta

Questa è un’idea mutuata proprio dal declutter: non dovremmo scegliere che cosa buttare bensì scegliere cosa tenere. E il criterio in questo caso è conservare solo ciò che ci rende felici, che ci fa sentire bene, che ci risuona emotivamente.
Non voglio prendere una deriva new-age fricchettona, dico solo che questa idea può essere trasposta nella gestione del backlog.
Quanta felicità una determinata storia porta ai nostri utenti?
In una scala di felicità siamo sicuri che l’ordinamento che ci siamo dati sia quello corretto? Riesco a produrre un impatto significativo nei miei utenti?

Continuare a prendersi cura

Bene una volta che abbiamo fatto questo repulisti, abbiamo organizzato i nostri item per categorie e abbiamo dato anche un ordine di priorità guardiamo con un occhio più attento ogni singolo elemento che abbiamo conservato.

Dobbiamo verificare che sia tutto effettivamente in ordine. Andare a vedere se ognuno di questi item che abbiamo conservato è completo, ha la struttura corretta, se abbiamo individuato realmente chi sono gli interlocutori e quali sono i loro bisogni.
E capire se sono coerenti con lo scenario attuale.

Una delle cose che si possono fare è focalizzarsi sulla prossima release di prodotto e cercare di associare al backlog una roadmap di prodotto per gli sviluppi più avanti nel tempo. 
Anche qui facciamoci delle domande per verificare che effettivamente quello che abbiamo conservato sia in buono stato: abbiamo tenuto conto di tutti gli interlocutori?
Abbiamo individuato bisogni espliciti ed impliciti?
Tutto questo è coerente con la strategia più generale?

Dopodichè non ci resta che…

Evitare le ricadute

Bisogna evitare di tornare nella situazione dalla quale siamo partiti. Come possiamo farlo? Dobbiamo avere attenzione nei confronti di ciò che a questo punto entra all’interno del backlog. E qui possiamo cogliere diversi spunti.
Diamoci una finestra temporale. In un armadio teniamo i vestiti per la stagione in corso, perché non nel backlog?
Facciamo in modo che il nostro backlog sia focalizzato sui prossimi tre mesi massimo sei mesi magari.

Utilizziamo un criterio che definisca esattamente che cosa è pronto per il backlog e tutto quello che non lo è può essere inserito in una sorta di waiting box / may be box (un contenitore dove inseriamo tutta una serie di buone idee da cui potremmo andare a pescare successivamente).

Teniamo sott’occhio la ratio delle cose che entrano ed escono oppure diamo un limite esplicito al nostro backlog. Alcuni ad esempio si impongono una certa soglia oltre la quale non andare proprio perché appunto la visione complessiva del backlog si sfilaccia.

Vedere l’ordine

Un altro suggerimento che potrebbe esservi d’aiuto nel mantenere l’ordine è tenere sotto controllo il backlog utilizzando diverse modalità di visualizzazione.

Chi ha letto il libro di Marie Kondo sa che uno dei consigli più preziosi e totalmente controintuitivi è disporre gli indumenti nei cassetti in un modo diverso che uno sopra l’altro bensì in verticale.


Questa idea mi ha fatto riflettere e mi sono resa conto che a volte siamo troppo condizionati dalla strumento che utilizziamo per gestire il backlog.
Proviamo ad andare oltre jira e tool simili che mostrano il backlog come una lunga lista di item.
Vi invito a sperimentare modalità alternative che tengano conto non solo della quantità ma anche del contenuto del backlog.

Non voglio sapere semplicemente quanti item ho ma vorrei capire anche meglio come sono distribuiti sui vari contenuti.
Ricordate le categorie di cui abbiamo parlato prima? Voglio capire che tipo di gerarchia esiste tra i vari elementi, voglio avere più visibilità delle connessioni, voglio vedere la granularità. 

Qui le possibilità sono svariate: dal classico backlog analogico su parete, alla modalità story mapping, mappe mentali e mappe ad albero.
In questa presentazione potete vedere i vari spunti che ho solo raccolto alcuni spunti ma sono curiosa di capire se voi ne vedete altri o ne avete magari già utilizzato alcuni che ritenete particolarmente efficaci.